Pago en Especie è il meccanismo fiscale escogitato in Messico per riscuotere più facilmente le tasse dovute dagli artisti e incrementare, al tempo stesso, il patrimonio culturale dello Stato. Il sistema, che consente a chi svolge attività artistiche di “versare” l'imposta sul reddito e l’Iva in natura, ossia, nel caso specifico, tramite le opere di loro produzione, si è rivelato un incentivo al rispetto degli obblighi fiscali da parte di questa speciale categoria di contribuenti. L’idea non è nuova, è nata nel 1957 su iniziativa di un gruppo di artisti guidati da David Alfaro Siqueiros. La proposta fu approvata e formalizzata nel 1975. Possono beneficiarne i residenti in Messico, autori di dipinti, stampe, sculture, fotografie, installazioni e arte digitale. Ma non tutto è “Arte”. Entrano nel programma Pago en Especie soltanto le opere rappresentative del percorso artistico dell’autore, promosse e valutate dall’autorità competente. L’accettazione dei lavori donati nell’ambito dello speciale regime deve essere certificata dall’ente o dal museo che li ha ricevuti. Grazie a questo metodo “creativo” di riscossione delle imposte, l’amministrazione statale messicana può vantare una delle più importanti collezioni di arte moderna e contemporanea presenti in tutto il Paese. Ogni anno viene pubblicato un catalogo che riunisce la collezione di arte contemporanea messicana frutto del programma.
Curiosità
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Irpef, per gli omaniti, una sconosciuta
In Oman l’imposta sul reddito delle persone fisiche non viene riscossa, a meno che non si tratti di redditi derivanti da imprese individuali. In merito, si evidenzia che solo un cittadino dell'Oman o, in determinate circostanze, cittadino di un paese membro del Consiglio di cooperazione del Golfo può gestire un'azienda come unico proprietario in Oman. Le persone fisiche che esercitano un'attività professionale a titolo individuale sono soggetti passivi in Oman. Il sistema fiscale prevede il versamento di un contributo previdenziale del 17,5% per i dipendenti che sono cittadini del Paese arabico, con l’esclusione dei dipendenti espatriati. Il dipendente paga un contributo pari al 7% dello stipendio mentre il datore di lavoro versa il restante 10,5 per cento. Il datore di lavoro è inoltre tenuto a contribuire per l'assicurazione per infortuni sul lavoro nella misura dell'1% dello stipendio del dipendente. Ciò porta il totale mensile dei contributi previdenziali e assicurativi a carico del datore di lavoro all'11,5 per cento. Da gennaio 2021, i datori di lavoro e i dipendenti dell'Oman sono tenuti a versare un ulteriore contributo salariale mensile pari all’1% dello stipendio mensile. Da ciò consegue che il contributo previdenziale totale è pari al 20,5% suddiviso tra il dipendente che paga un contributo dell'8% e il datore di lavoro che paga il saldo del 12,5 per cento (fonte scheda paese – Oman).
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Nel Medioevo, imprenditori, anche i poveri, grazie ai Monti di pietà
I più curiosi si chiederanno quando e in quali circostanze sia avvenuto lo sdoganamento del prestito in denaro con interessi, pratica ritenuta, per lungo tempo, particolarmente deplorevole e condannabile, finché non è cambiato il punto di vista da cui osservarla, che ne ha messo in luce, al verificarsi di determinate condizioni, i vantaggi sociali che potevano derivarne. Molto sinteticamente, si fece strada la teoria per cui la concessione di crediti per l’avvio di attività produttive utili a tutta la comunità era addirittura da lodare. Il prestito con interessi divenne, quindi, legittimo a patto che non fosse finalizzato al solo accumulo di ricchezza, ma utilizzato quale strumento per raggiungere scopi utili alla collettività. L’importante era fissarne il giusto prezzo oltre il quale si incappava nell’usura. La soluzione contro i tassi usurai, soprattutto nei confronti dei cittadini meno abbienti, fu trovata, a metà del Quattrocento, dal minorita Bernardino da Feltre e dal domenicano Antonino da Firenze, promotori della costituzione dei Monti di pietà, istituzioni senza fini di lucro, che erogavano piccoli prestiti ai poveri in cambio di piccoli pegni, aprendo così, anche alle classi meno abbienti, la possibilità di avviare attività accessibili, altrimenti, soltanto ai benestanti.
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Il pane “sciapo”, è una questione di gusto o di fisco?
Sembra che la diffusione in Toscana del pane “sciapo” o “sciocco” o semplicemente “senza sale” sia la risposta dei fiorentini, nel XII secolo, al “caro” sale imposto dai pisani ai loro vicini e rivali, che facevano affari approfittando della grande quantità del prezioso ingrediente che sbarcava dalle navi approdate nel porto della ricca repubblica marinara. Non è da scartare neanche l’ipotesi per cui la scelta dei fornai fiorentini sia dipesa non tanto dalla cupidigia dei pisani, quanto da una delle tante gabelle introdotte dai governanti della loro città, mal digerita dai cittadini. Più certo, parrebbe, il legame tra il nuovo pane e le tasse a Perugia, dove, nel 1540, lo Stato pontificio introdusse un’imposta molto alta sul sale scatenando nella città la “Guerra del sale”. Il capoluogo umbro perse lo scontro, ma da allora in tutta l'Umbria il “filone” è sciapo. In realtà anche questa tesi non convince molto gli storici, perché l’usanza oltrepassa i confini perugini, interessando tutta l’Umbria e anche zone delle Marche e il Viterbese. Lo storico americano Zachary Nowak, direttore del Food Studies Program dell'Umbra Institute con sede a Perugia, fa risalire il taglio sul sale alla politica fiscale pontificia particolarmente onerosa nei territori lontani da Roma, ma con radici ben più antiche del 1540. Nowak ha, infatti, rintracciato ricette quattrocentesche che facevano già a meno del prezioso ingrediente. In sintesi, è molto probabile che la pagnotta tradizionale sia stata messa da parte per reazione a tasse troppo alte, ma non può essere del tutto esclusa neanche l’eventualità che filoni e panini “sciocchi” siano nati per questioni di gusto o dall’estro di un fornaio, che li ha trovati più giusti ad accompagnare i piatti saporiti della cucina toscana o umbra.
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L’amico a quattro zampe fa la sua parte con il fisco
La compagnia del miglior amico dell’uomo vale e valeva bene il pagamento di una tassa. In Italia, l’imposta sui cani fu introdotta dal regio decreto n. 1393/1918 e divenne obbligatoria in tutti i comuni del Regno dal 1931, fu abrogata nei primi anni Novanta. Il tributo comunale colpiva ogni varietà o razza, salvo poche eccezioni, come i cani guida per i ciechi. La tassa andava pagata con cadenza annuale, erano previste tariffe massime applicabili dai comuni: 150 lire per i cani di lusso o di affezione, 50 lire per i cani da caccia e da guardia, 15 lire per i cani destinati alla custodia di edifici e di greggi o tenuti a scopo di commercio. In Italia la tassa è stata abolita, ma in molti paesi occidentali l’amico a quattro zampe comporta tuttora il pagamento di una imposta/licenza. Eccone alcuni esempi: in Germania è prevista una tassa locale che varia a seconda della razza, i cani pericolosi pagano di più; in Irlanda i proprietari devono acquistare una licenza pari a 20 euro ad animale all'anno, 140 euro per una licenza a vita per un singolo cane, in talune circostanze, infine, è possibile pagare una quota unica di 400 euro per un numero indeterminato di cani; in Usa, nella maggior parte degli Stati è richiesta una licenza che non supera il periodo della copertura vaccinale, inoltre, per prevenire una sovrappopolazione canina, qualche giurisdizione impone una tassa molto più bassa se il proprietario presenta prova veterinaria che il cane è stato sterilizzato o castrato.