La compagnia del miglior amico dell’uomo vale e valeva bene il pagamento di una tassa. In Italia, l’imposta sui cani fu introdotta dal regio decreto n. 1393/1918 e divenne obbligatoria in tutti i comuni del Regno dal 1931, fu abrogata nei primi anni Novanta. Il tributo comunale colpiva ogni varietà o razza, salvo poche eccezioni, come i cani guida per i ciechi. La tassa andava pagata con cadenza annuale, erano previste tariffe massime applicabili dai comuni: 150 lire per i cani di lusso o di affezione, 50 lire per i cani da caccia e da guardia, 15 lire per i cani destinati alla custodia di edifici e di greggi o tenuti a scopo di commercio. In Italia la tassa è stata abolita, ma in molti paesi occidentali l’amico a quattro zampe comporta tuttora il pagamento di una imposta/licenza. Eccone alcuni esempi: in Germania è prevista una tassa locale che varia a seconda della razza, i cani pericolosi pagano di più; in Irlanda i proprietari devono acquistare una licenza pari a 20 euro ad animale all'anno, 140 euro per una licenza a vita per un singolo cane, in talune circostanze, infine, è possibile pagare una quota unica di 400 euro per un numero indeterminato di cani; in Usa, nella maggior parte degli Stati è richiesta una licenza che non supera il periodo della copertura vaccinale, inoltre, per prevenire una sovrappopolazione canina, qualche giurisdizione impone una tassa molto più bassa se il proprietario presenta prova veterinaria che il cane è stato sterilizzato o castrato.
Curiosità
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La Groenlandia fa a meno dell’imposta sul valore aggiunto
L’elemento più significativo del sistema fiscale della Groenlandia è senz’altro l’assenza dell’imposizione sul valore aggiunto, caratteristica che accomuna pochissimi altri Paesi nel mondo, e niente tasse anche sulla proprietà. Per quanto riguarda l’imposizione sui redditi, invece, sono previsti tributi statali (imposta sul reddito nazionale) e tributi comunali. In particolare vige il principio, semplice e lineare, del reddito globale, in base al quale devono fare i conti con il Fisco tutti i redditi, ovunque prodotti, percepiti dai residenti. Per le persone fisiche le aliquote oscillano, a seconda dei Comuni, dal 42 al 44 per cento. I non residenti pagano le tasse per le sole entrate prodotte nel territorio. Stessa ratio per il reddito d’impresa: le società residenti pagano i tributi in Groenlandia su tutti i redditi a prescindere dal luogo di produzione, fanno eccezione i proventi derivanti da immobili situati all’estero perché esenti. Le società non residenti sono soggette all’imposta sui profitti conseguiti tramite una stabile organizzazione. La regola salta per le entrate connesse allo sfruttamento di petrolio, gas e minerali, tassate in ogni caso in Groenlandia a prescindere dalla stabile organizzazione. L’aliquota dell’imposta sulle società è del 30% sia per quelle groenlandesi che per quelle estere, ma non finisce qui, oltre all’imposta ordinaria, è previsto un “sovrapprezzo” in forza del quale l’effettiva aliquota sulle società si attesta al 31,8 per cento. Di norma, infine, non sono previste imposte sulle successioni, mentre le donazioni sono tassabili con le aliquote ordinarie, dal 42 al 44 per cento, ma non quelle a favore del coniuge o dei figli che sono invece esenti (fonte scheda paese – Groenlandia).
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Namibia nella più antica unione doganale del mondo
L’imposizione diretta e indiretta della Namibia è affidata a un’unica amministrazione, la Namibia revenue agency (“Namra”), che offre al cittadino servizi digitali in tempo reale grazie a un sistema integrato denominato Integrated tax administration system (Itas). Per quanto riguarda, invece, la tassazione del traffico doganale, il Paese africano è membro della Southern African Custom Union (Sacu), la più antica unione doganale del mondo e il cui obiettivo è mantenere il libero scambio di merci tra gli Stati aderenti. Nessuna barriera doganale, dunque, tra i Paesi dell’Unione e, quindi, tra Botswana, Lesotho, Sud Africa e Swaziland, mentre per le importazioni dal resto del mondo si applicano una tariffa e un’accisa comune. È prevista, inoltre, l’applicazione, in tutta l’area, di un’imposta di consumo con le stesse aliquote per alcuni beni, come prodotti di lusso, alcolici e carburante. Le aliquote daziarie prevedono otto livelli diversi di tassazione fino a un massimo di oltre il 30 per cento. A pagare le tasse più salate, ad esempio, la maggior parte degli articoli di abbigliamento. La gestione degli incassi doganali è affidata al Sudafrica che poi li ridistribuisce, attraverso un apposito fondo, ai singoli Paesi membri del Sacu (fonte scheda paese - Namibia)
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Matrone romane in piazza per riconquistare le loro libertà
Nelle pagine dei libri di storia, le “guerre puniche” si posizionano senz’altro tra le campagne in armi dei tempi antichi più impresse nei ricordi conservati dai banchi di scuola. Per un breve ripasso, ricordiamo che erano in campo, per la supremazia del mar Mediterraneo, tra il terzo e il secondo secolo a.C., romani e cartaginesi e gli scontri si conclusero con la vittoria di Roma. I conflitti, si sa, svuotano le casse degli Stati belligeranti e per rimediare, in genere, i governanti agiscono su due fronti: nuove tasse e taglio della spesa. In occasione della seconda guerra punica e, nello specifico, dopo la rovinosa sconfitta di Canne, Roma scelse di ridurre le spese, ma non di tutti. Nel mirino le “donne”. Nel 215 a.C. fu così promulgata la “lex oppia”, proposta dal tribuno della plebe Gaio Oppio, per limitare il lusso ma solo al “femminile”. Secondo il provvedimento le donne non potevano possedere più di mezza oncia d'oro, indossare abiti dai colori troppo vivaci e andare in carrozza a Roma o in un’altra città se non per partecipare a una cerimonia religiosa. La misura aveva un duplice obiettivo: evitare l’impoverimento patrimoniale dei romani più ricchi in un momento in cui era indispensabile non sperperare le risorse finanziarie disponibili e preservare costumi morigerati contro l’ostentazione del lusso. Dopo la vittoria definitiva di Roma su Cartagine le casse dello Stato avevano racimolato fondi in abbondanza per far fronte all’emergenza bellica e, quindi, iniziarono le manifestazioni di malcontento nei confronti dei provvedimenti straordinari assunti nel periodo più nero della crisi economica generata dal conflitto. Tra le disposizioni contestaste la “lex oppia”, che su proposta dei tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio, a un ventennio dalla sua promulgazione, nel 195 a.C. fu abrogata. Da quel che raccontano gli storici, la proposta dei due tribuni fu oggetto di un acceso dibattito. Le matrone romane non aspettarono tranquillamente in casa il verdetto della risposta, bensì scesero in massa nelle strade e occuparono il foro per far sentire la propria voce inviando delegate per spiegare le ragioni della protesta ai magistrati finché non ottennero l’abolizione della legge. A nulla servì l’accesa opposizione del console Marco Porcio Catone, il “censore”. Ironica, invece, la “chiosa” del console Lucio Valerio Flacco, che sembra abbia commentato la vicenda osservando che “Roma comanda tutto il mondo ma Roma è comandata dalle donne”.
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Lo scherzetto di Aureliano sulla beneficenza
Finché durò il governo repubblicano a Roma, il sollievo dei poveri fu argomento di inquietudine per i patrizi e per i membri del Senato. Questi, animati da avidità e sete di potere, avevano ben poca compassione per il popolo. L’istituzione della pubblica beneficenza vide la luce solo al tempo degli imperatori, alcuni dei quali, però, erogarono liberalità ai non abbienti, non tanto per puro spirito di umanità ma per accrescere la propria fama. Il caso più emblematico fu ad opera di Aureliano che, partendo per una spedizione in Oriente, promise al popolo delle corone, se fosse tornato vincitore. Tutti speravano che fossero d’oro, ma la speranza divenne presto vana: l’imperatore, vittorioso, infatti, fece dare la stessa forma delle corone ai pani, che, però, venivano distribuiti gratuitamente (Studio storico sulle imposte indirette presso i romani – R. Cagnat 1883).