Il gioco del lotto ha origini antiche. Pare che a Milano nel 1448 esistevano le “borse di ventura” e che il primo banco del Lotto risalga al 1528 nella città di Firenze. È però il Regio decreto n. 1554/1863 a introdurre una vera e propria disciplina del gioco: oltre alle disposizioni a fini fiscali, prevedeva anche quelle penali, a tutela del regolare svolgimento del servizio. Le città deputate alle estrazioni erano Bari, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia, alle quali, nel 1939, si aggiunsero Cagliari e Genova. Fu poi emanato un secondo Regio decreto, n. 483/1871, a seguito degli abusi che si verificarono per l’insufficienza della normativa vigente. Furono quindi inasprite le pene per gli illeciti commessi e fu stabilito che le vincite non superiori a mille lire potevano, a richiesta del vincitore, pagarsi mediante libretti delle casse postali di risparmio. Il successivo Rd n. 5744/1880 stabilì in quali casi erano permesse le lotterie e le tombole promosse da Corpi morali (beneficenza e "incoraggiamento di belle arti"). Le tombole erano soggette a una tassa del 20% sul prezzo delle cartelle vendute, mentre le lotterie erano esenti.
La disciplina sulla concessione dei banchi del lotto venne introdotta dalla legge n. 498/1891, che definì il divieto dei giochi di sorte per sottrarre la privativa ad ogni concorrenza e diminuì l'aggio ai ricevitori. La stessa legge, inoltre, per incrementare le giocate, abrogò la tassa di ricchezza mobile sulle vincite.
Dal 1994 il Lotto è gestito dai Monopoli di Stato e la concessione del gioco è affidata alla Lottomatica.
Curiosità
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I Romani e le imposte indirette
I Romani non hanno mai distinto quelle che oggi chiamiamo imposte indirette. Essi riconoscevano i tributa, che si potrebbero identificare con le nostre imposte dirette, quali contributo fondiario e personale, e i vectigalia, che intendevano le altre entrate dello Stato. Questa parola aveva un ampio respiro, includendo anche la retribuzione di servizi resi a privati dallo Stato: un vectigal era, ad esempio, il prezzo pagato per avere il diritto di portare nella propria casa l’acqua degli acquedotti. Tra i vectigalia meritano il nome di imposte indirette i portoria, i pedaggi e dogane, stabiliti da Cesare, da pagarsi quando si valicavano i confini di terra o di mare del territorio romano, la vicesima heriditatium, l’imposta sulle successioni e sui legati testamentari, la vicesima libertatis, la tassa sulle liberazioni da schiavitù, e la centesima o ducentesima rerum venalium, l’imposta sulle vendite all’asta decisa da Augusto. C’è da dire che come le imposte indirette furono le ultime a venire stabilite, furono così anche le prime a scomparire e dopo Diocleziano non resta che il portorium, che ritroviamo in vigore all’inizio del Medioevo (Studio storico sulle imposte indirette presso i romani – R. Cagnat 1883).
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I beni delle istituzioni gravati dalla “Tassa di manomorta”
Il termine manomorta nel passato si riferiva a un patrimonio immobiliare statico perché generalmente appartenente agli enti religiosi che disponevano di beni inalienabili, incapaci quindi di dare luogo al versamento di imposte sulla vendita o sulla successione. Fu introdotta quindi una tassazione su tali beni per attenuare i privilegi fiscali di un patrimonio in pratica sottratto al fisco.
In vigore dal 1862 al 1954, la tassa di manomorta era una tassa annuale proporzionale che si applicava alla rendita reale o presunta dei beni immobili e mobili appartenenti agli enti morali. In pratica scontavano il tributo tutti i beni delle province, dei comuni, degli istituti di carità, ecclesiastici e religiosi. Erano esentate invece le società commerciali ed industriali, di credito e di assicurazione, in quanto soggette ad altro tributo, e gli asili per l'infanzia.
La rendita imponibile degli immobili era determinata dal prezzo annuo della locazione, da cui si deducevano l'ammontare annuo dell'imposta fondiaria e le spese di riparazione. L’aliquota era pari a 4 lire per ogni 100 lire della rendita soggetta a tassa. Gli istituti di carità e di beneficenza pagavano una tassa ridotta di sole lire 0,50 per ogni 100 lire della loro rendita imponibile. Le rendite che non superavano le 300 lire, invece, erano escluse dal tributo.
La tassa si estese a tutto il Regno d’Italia con la legge n. 587/1862 e fu abolita nel 1954.
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Tasse e famiglia
Il rapporto tra fisco e focolare domestico ha origini lontane e risale agli albori dell’Italia unita, ma ancora senza Roma capitale, quando il fisco con una legge dava facoltà ai comuni di imporre la tassa di famiglia o di focatico. In particolare, il focatico identificava un'imposta applicata su ciascun focolare, ossia su ciascuna abitazione di un nucleo familiare, o su ciascun fumante, se l'abitazione comprendeva più nuclei familiari.
Nella Gazzetta Ufficiale del 5 agosto del 1868 la legge n. 4513 autorizzava l’imposizione della predetta tassa di famiglia, associata a quella sul bestiame: erano soggette al contributo le famiglie in misura della loro agiatezza. La tassa di famiglia, però, non costituiva una tassa addizionale a quella sulla ricchezza mobile, né a quella sui fabbricati o all'imposta prediale, ma faceva esclusivamente riferimento a quelle circostanze che contribuivano a maggiori o minori agi di una famiglia: il valore locativo dell'immobile, il lusso della casa, nonché la posizione sociale.
Per la cronaca, solo un esiguo numero di comuni esentarono dal tributo le famiglie più povere e la maggioranza adottò aliquote progressive.
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Vantaggi e svantaggi nella Roma imperiale per famiglie numerose e celibi
Già nell’antica Roma i governanti si preoccupavano di incrementare la natalità e favorire i matrimoni. L’imperatore Augusto introdusse misure che premiavano i coniugi con prole numerosa e penalizzavano i cittadini che non convolavano a nozze. Augusto non si faceva pregare troppo, ad esempio, per nominare cavalieri i genitori che avevano messo al mondo molti figli. Gratifica “pecuniaria”, invece, per i plebei, che ricevevano mille sesterzi in caso di famiglia “mista”, composta da maschi e femmine. Non mancavano, inoltre, i vantaggi per le famiglie numerose. A prevederli lo ius trium liberorum, che premiava il cittadino romano con almeno tre figli o quello liberto che ne aveva almeno quattro. L’altra faccia della medaglia mostrava una Roma severa con chi non si sposava. Come “pegno” per aver schivato il matrimonio, le proprietà dei celibi, dopo la morte, erano acquisite dallo Stato. Non solo, in caso di morte di un parente, il celibe aveva 100 giorni di tempo per combinare un matrimonio, altrimenti non poteva ricevere nulla, né come erede né come legatario.