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Analisi e commenti

Elusione fiscale e abuso del diritto.
Il principio di offensività del reato - 3

La Cassazione ha avuto modo di affrontare il problema della compatibilità del riconoscimento della responsabilità penale in capo a chi ha posto in essere pratiche “scorrette”

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Gli argomenti addotti a sostegno della rilevanza penale delle condotte elusive
Avverso tali osservazioni (vedi precedente intervento), una parte della dottrina, muovendo dalla considerazione dell'alto grado di idoneità delle condotte elusive ad arrecare un’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma di cui all'articolo 4 del Dlgs 74/2000, l’interesse dell'Erario alla corretta percezione dei tributi, ha sostenuto la sostanziale identità dei concetti di elusione ed evasione fiscale. L'elusione, al pari dell'evasione, comporterebbe una violazione dell'obbligo gravante sui consociati, ex articolo 53 della Costituzione, di contribuire solidaristicamente alla spesa pubblica. Producendo, in definitiva, “una discrepanza tra la dichiarazione (i cui contenuti siano da essa condizionati) e la misura della ricchezza che si sarebbe dovuto sottoporre alla pretesa impositiva”, l'elusione dovrebbe essere ritenuta “soltanto un modo per produrre un’evasione fiscale penalmente rilevante”.
 
Nello stesso senso è stato evidenziato come la costruzione dei delitti in materia di dichiarazione, quali fattispecie a dolo specifico di evasione, non possa essere invocata per escludere la rilevanza penale dell'elusione. Tale elemento psicologico risulterebbe integrato anche nel caso dell'elusione in quanto ricorrerebbe ogni qualvolta il contribuente agisca con il “fine di pervenire, per il tramite di una dichiarazione falsa, a dichiarare un'imposta inferiore rispetto a quella dovuta”. Anzi, proprio il fatto che un contribuente faccia un uso “distorto” del diritto al fine di ottenere uno specifico vantaggio fiscale, dimostrerebbe una precisa volontà di sottrarsi ai propri obblighi impositivi.
 
Tale corrente dottrinale, tesa a riconoscere la rilevanza penale dell'elusione, è stata accolta da parte di quella giurisprudenza che ha mostrato di non condividere l'opinione secondo la quale le condotte elusive non potrebbero realizzare le modalità di aggressione al bene giuridico tipizzate nell'articolo 4 del Dlgs 74/2000. Secondo il giudice di legittimità, infatti, per la sussistenza del reato di cui all'articolo 4, il legislatore non richiede una dichiarazione fraudolenta, “bensì soltanto che la dichiarazione sia infedele, ossia che, anche senza l'uso di mezzi fraudolenti, siano indicati nella stessa "elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi" (cassazione, sentenza n. 26723/2011). Tale fattispecie dunque ben potrebbe essere integrata anche dalle condotte elusive, perché queste, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione, implicano che il contribuente presenti una “dichiarazione infedele”, ossia una dichiarazione la cui “infedeltà” è rappresentata proprio dal fatto che “nella stessa gli elementi attivi non sono stati esposti nel loro ammontare effettivo”.
 
Infine, l'argomento maggiormente invocato a sostegno della rilevanza penale della elusione, è costituito proprio dal testo dell'articolo 16 del Dlgs 74/2000 che di tale rilevanza costituirebbe, seppure in via implicita, il fondamento normativo espresso. In forza di tale articolo, dovrebbe ritenersi la responsabilità penale di chi, prima di realizzare una delle condotte per le quali può essere chiesto, tramite la procedura d'interpello prevista dall'articolo 21 della legge 413/1991, un parere preventivo dell'Amministrazione finanziaria sulla natura elusiva o meno dell'operazione descritta, non abbia chiesto tale parere o ve ne sia discostato.
Ritenere il contrario, come fa chi richiama il testo della “relazione ministeriale”, significherebbe svuotare di contenuto la disposizione citata: il principio dell'efficacia scusante dell'errore incolpevole generato da un legittimo affidamento nel parere qualificato delle autorità competenti, già opererebbe per i reati tributari in forza dell'articolo 5 del codice penale, nell'interpretazione datane dalla Corte costituzionale (sentenza n. 364/1988). Per tale ragione e in ossequio del principio di conservazione delle norme giuridiche, in virtù del quale, tra più interpretazioni possibili, deve prediligersi quella che attribuisca alla norma un qualche significato piuttosto che quella che la renda superflua, deve negarsi ogni fondamento sulla tesi che, facendo leva sul testo della relazione ministeriale, ritiene di escludere la rilevanza penale dell'elusione fiscale.
 
Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di cassazione nella sentenza n. 7739 del 28/2/2012
L'argomento da ultimo evidenziato è stato recepito appieno dalla Suprema corte di cassazione che lo ha posto all'inizio dell'iter argomentativo che l'ha portata, da un lato, a ritenere compatibile, con il principio della riserva di legge, l'incriminazione delle condotte qualificabili quali elusive per effetto della clausola semi-generale di cui all'articolo 37-bis, da un altro lato, a escludere che un'analoga rilevanza penale possa riconoscersi alle condotte realizzate in violazione del generale principio anti-abuso di matrice giurisprudenziale.
Nella sentenza in esame, il giudice di legittimità, infatti, dopo aver esposto che il problema della qualificazione penalistica delle condotte elusive può essere condotto con esclusivo riferimento alle fattispecie previste dagli articoli 4 e 5 (“Omessa dichiarazione”) del Dlgs 74/2000, analizza e risolve il problema della rilevanza penale dell'elusione, partendo proprio dalla disposizione dell'articolo 16 del Dlgs 74/2000.
 
In primo luogo, la Corte espressamente individua in tale articolo il riconoscimento normativo espresso della rilevanza penale dell'elusione. Ciò risulterebbe evidente non solo dal testo di tale articolo e dalla sua collocazione sistematica (ossia nel Titolo III del provvedimento rubricato "Disposizioni comuni" e subito dopo l'articolo 15 che concerne le “violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie”), ma soprattutto dal già rammentato principio di conservazione delle norme giuridiche. Ad avviso della Corte, infatti, se l'elusione non avesse rilevanza penale, l'articolo 16 citato non avrebbe alcuna ragion d'essere: “non vi sarebbe necessità di una esimente speciale per la tutela dell'affidamento se l'elusione fosse irrilevante dal punto di vista penale”.
 
In secondo luogo, proprio dall'ambito di applicazione dell'esimente in esame, il giudice di legittimità trae stringenti conclusioni sull'ampiezza del divieto penale di realizzare condotte elusive. Come è noto, infatti, tramite l'interpello antielusivo il contribuente non può ottenere un parere qualificato su qualsiasi operazione egli intenda porre in essere, ma solo su quelle cui fa rinvio il secondo comma dell’articolo 21 della legge 413/1991. In particolare, il contribuente può chiedere un parere preventivo all'Amministrazione finanziaria sulle operazioni previste nel terzo comma dell'articolo 37-bis del Dpr 600/1973 o riconducibili alla disposizione di cui all'articolo 37, comma terzo, del medesimo decreto (“interposizione fittizia”). Tale circostanza segnerebbe il limite della rilevanza penale delle pratiche elusive con riferimento al principio di determinatezza della fattispecie legale, posto che, ad avviso del giudice di legittimità, “non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”. Una responsabilità penale può sussistere, dunque, solo con riferimento alla realizzazione di una delle condotte elencate nel terzo comma dell'articolo 37-bis del Dpr 600/1973 (o anche le condotte che possano dare luogo a un'interposizione fittizia ex articolo 37, comma 3, Dpr 600/1973, qualora si ritenga che possa questa costituire una forma di elusione fiscale), in relazione alle quali può essere chiesto, tramite la procedura d'interpello prevista dall'articolo 21 della legge 413/1991, il parere preventivo dell'Amministrazione finanziaria.
 
Al contrario e per le stesse ragioni, la Corte esclude che possano essere fonte di responsabilità penale le condotte che, pur non essendo riconducibili nell'elenco di cui al terzo comma dell'articolo 37-bis, siano comunque da qualificarsi come elusive ai sensi della definizione di abuso del diritto elaborata dalla giurisprudenza interna e comunitaria. La Corte, nella consapevolezza di come il generale principio antielusivo sia suscettibile di applicazione generalizzata, mostra, dunque, di condividere l'opinione di chi ne ha evidenziato la ontologica atipicità. Ad avviso della Corte, pertanto, “nel campo penale non può affermarsi l'esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”.
Tali conclusioni non sarebbero in contrasto con la giurisprudenza comunitaria, che ha escluso, per difetto della necessaria determinatezza, l'applicabilità di sanzioni amministrative nei confronti degli autori di condotte realizzate in violazione della generale clausola anti-abuso. A tale proposito, la Cassazione evidenzia come la giurisprudenza comunitaria si sia pronunciata esclusivamente sulle violazioni del divieto comunitario di abuso del diritto e ne abbia escluso la sanzionabilità proprio in quanto tale divieto, diversamente da quello di cui all'articolo 37-bis, opera “come regola generale che prescinde dalla individuazione di specifiche e tassative fattispecie”.
 
Nel ragionamento della Corte, dunque, l'individuazione, tramite il rinvio all'articolo 37-bis del Dpr 600/1973, di una serie tassativa di operazioni potenzialmente elusive, consente di ritenere soddisfatta quell'esigenza di garanzia di cui il principio di determinatezza costituisce espressione. Il principio di determinatezza, nell'imporre al legislatore di individuare precisamente la fattispecie legale la cui realizzazione viene sanzionata penalmente, risponde all'esigenza di permettere ai destinatari del precetto penale di cogliere preventivamente il disvalore attribuito dall'ordinamento alla realizzazione di una determinata condotta. In tal senso appare chiaro quanto affermato dalla Corte laddove viene precisato che, la rilevanza penale dell'elusione, nei limiti descritti, non confligge con il principio della riserva di legge, in quanto “si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive”.
 
Ad avviso della Corte, inoltre, la soluzione prospettata, oltre a non violare il principio di legalità, del quale il principio di determinatezza costituisce un corollario, risulta in linea con la centralità che il nostro ordinamento attribuisce al principio di offensività del reato.
Con la sentenza in commento, la Suprema corte sembra, dunque, aderire alla concezione “realistica” del reato che, muovendo dall'idea centrale che “tipicità ed offesa, tipicità e contenuto di disvalore del fatto sono praticamente le due facce della stessa medaglia”, impone al giudice di valutare la tipicità del fatto aggiungendo, agli elementi essenziali decritti dal legislatore, “il requisito autonomo ed ulteriore dell'offesa al bene giuridico tutelato”. Tale adesione risulta evidente laddove la Corte ritiene che nella definizione di imposta “evasa”, ai sensi di quanto precisato nell'articolo 1, lettera f), del Dlgs 74/2000, debba essere ricompresa anche “l'imposta elusa, che è, appunto, il risultato della differenza tra un imposta effettivamente dovuta, cioè quella della operazione che è stata elusa, e l'imposta dichiarata, cioè quella autoliquidata sull'operazione elusiva”.
Il giudice di legittimità, infatti, motiva tale conclusione affermando che le condotte elusive, in quanto “idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile”, ledono il bene giuridico salvaguardato dai delitti in materia di dichiarazione, l'interesse dell'Erario alla corretta percezione dei tributi, al pari di quelle che integrano una evasione in senso stretto.
Pertanto, ad avviso della Corte, il riconoscimento della rilevanza penale delle condotte di abuso, non solo non lede il principio di legalità “trattandosi di un risultato interpretativo «conforme ad una ragionevole prevedibilità», tenuto conto della ratio delle norme, delle loro finalità e del loro inserimento sistematico”, ma risulta la conclusione più coerente con il reale disvalore della condotta realizzata, posto che una differente soluzione garantirebbe l'impunità di condotte altamente lesive del bene giuridico tutelato dai delitti in materia di dichiarazione.
 
3 - fine

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