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Analisi e commenti

Lo Iasb va avanti, l’Ue rallenta.
Ifrs 9 in attesa di endorsement

A Londra proseguono i lavori di restyling, ma il nuovo standard sugli strumenti finanziari è ancora nel limbo

banca
I lavori per la sostituzione dello Ias 39 proseguono. L’ultimo mattone è rappresentato dal supplemento all’exposure draft “Costo ammortizzato e impairment”, datato 31 gennaio 2011 e aperto ai commenti fino al prossimo 1° aprile. Un primo passaggio definitivo, in realtà, c’è già stato a novembre del 2009, con la rivisitazione delle regole dedicate alla classificazione e alla valutazione degli strumenti finanziari. Il documento – l’Ifrs 9 – non ha, però, fino ad ora ancora incassato il supporto dell’Efrag. Step fondamentale per arrivare poi all’omologazione del principio contabile da parte della Commissione europea.
 
Ias 39. Un rimpiazzo in 3 fasi
Lo Iasb ha originariamente pianificato la sostituzione dello standard n. 39 “Strumenti finanziari: rilevazione e valutazione” in tre fasi (a cui si è poi aggiunta un’appendice, che rivisiterebbe però lo Ias 32, costituita dalla compensazione di attività e passività finanziarie – cfrUna compensazione “all’europea” per attività-passività finanziarie”, pubblicato su Fiscooggi.it lo scorso 2 febbraio):
  1. rilevazione e valutazione. La materia è stata, come anticipato, già trattata in via definitiva dallo Iasb, con l’emissione, il 12 novembre 2009, dell’Ifrs 9. Principio contabile che, in prima battuta, guardava esclusivamente alle attività finanziarie e che, il 28 ottobre dello scorso anno, ha inglobato al suo interno anche le “istruzioni per l’uso” delle passività finanziarie
  2. metodologie di impairment (dei soli asset misurati al costo ammortizzato). Al momento siamo a livello di bozze (exposure draft). Una prima, “Amortised Cost and Impairment” (scadenza commenti, 30 giugno 2010), e una seconda, di integrazione, dello scorso 31 gennaio
  3. hedge accounting. Anche qui c’è solo un’exposure draft – l’ED/2010/13 – del 9 dicembre 2010, con scadenza commenti fissata al 9 marzo.
 
L’intera rivisitazione, originariamente programmata per la fine del 2010, dovrebbe avvenire entro il primo semestre di quest’anno. Ma mai, come in questo caso, il condizionale è d’obbligo. Anzi, tutto lascia presagire che l’attesa si prolungherà. Così come non ci si stupirebbe se anche quanto finora, dell’Ifrs 9, ha una veste definitiva subisse delle modifiche.
 
Dopo tutto, non è un caso se l’Ifrs 9 (nei piani dello Iasb obbligatorio per gli esercizi che cominceranno il - o dopo il - 1° gennaio 2013, con possibile applicazione anticipata) ha dovuto affrontare i contrattempi di un endorsement che non è arrivato e che ancora non è nei piani dell’Efrag. Logica conseguenza delle critiche ai contenuti del principio contabile, arrivate dai rappresentanti di diversi Paesi Ue in seno all’Arc (Accounting regulatory committee) - l’Organismo il cui voto favorevole (a maggioranza qualificata) è indispensabile per l’adozione dell’Ifrs da parte della Commissione europea e per la sua successiva pubblicazione nella GUUE - e alla Commissione stessa.
 
La domanda che a questo punto ci si pone è: cos’è che non piace dell’Ifrs 9? Scopriamone i contenuti.
 
Obiettivo semplificazione
La parola d’ordine dello Iasb è stata “semplificazione”. Ed effettivamente, fermandosi alle sole regole, senza scendere più in profondità per cercare di afferrarne le conseguenze, l’Ifrs 9 si presenta più “maneggevole” dello Ias 39. Le categorie che accolgono le attività finanziarie passano da 4 a 2 (o 3, se si considerano le azioni con fair value to Oci), scompare la famigerata tainting rule e il “derivato incorporato” esce dal vocabolario Ias/Ifrs.
 
In sintesi, la contabilizzazione è diretta conseguenza prima di tutto del business model della società, poi delle caratteristiche dell’asset. Lo strumento finanziario va, infatti, misurato al costo ammortizzato solo se, contemporaneamente:
  • l’obiettivo dell’azienda è quello di tenerlo in portafoglio per incassare i flussi di cassa contrattuali (business model test)
  • i flussi di cassa contrattuali sono rappresentati esclusivamente da interessi sul capitale nominale e rimborso di quest’ultimo (contractual cash flow characteristic test).
 
In caso contrario, c’è il fair value (al conto economico). La riclassificazione di uno strumento, da una categoria all’altra, è ammessa solo quando il business model della società cambia.
 
Questo l’impianto di fondo del nuovo standard, che non richiede più, come anticipato, di contabilizzare separatamente lo strumento finanziario e il derivato incorporato (tutto al costo ammortizzato oppure al fair value) e che concede al redattore del bilancio due opzioni:
  • la fair value option (a conto economico), se utile a evitare incongruenze contabili
  • la possibilità di far confluire nel patrimonio netto (Oci), permanentemente e senza recycling al conto economico, le variazioni di fair value delle azioni non detenute per la negoziazione, i cui unici componenti di reddito (destinati, cioè, al CE) sarebbero perciò rappresentati dai dividendi.
 
Per finire, l’Ifrs 9 non ripropone più la cosiddetta cost exemption, la possibilità, cioè, di misurare azioni e derivati non quotati al costo (pur fornendo indicazioni su quando il costo di questi strumenti rappresenta comunque una stima appropriata del fair value).
 
Business model e cash flow dell’asset. E tutto gira intorno
Fair value o costo ammortizzato. Al centro ci sono il modo di far business dell’azienda (detengo lo strumento per raccoglierne i frutti contrattuali o per trarne plusvalenze?) e le caratteristiche dell’asset. Va subito detto che parte delle critiche all’Ifrs 9 traggono spunto proprio da ciò. Il “business model”, tanto per cominciare, non si identifica con le intenzioni del management sul singolo strumento, ma va individuato a un “più elevato livello di aggregazione”. Così si legge nel paragrafo B.4.2 dell’appendice all’Ifrs 9. Ma come si identifica questo livello più elevato di aggregazione? Come si disegnano i contorni di questi portafogli?
 
C’è da dire che a rendere più ragionevole ed elastico il paradigma c’è la previsione per cui, allo scopo, non è comunque necessario detenere gli strumenti finanziari fino a scadenza. Come, ad esempio, nei casi in cui l’asset non soddisfa più i requisiti individuati dalla policy aziendale (il rating dello strumento scende troppo), oppure quando c’è bisogno di reperire fondi per investimenti. Un’indicazione che, non c’è dubbio, richiama solo da lontano la “tainting rule” per cui la società non deve classificare alcuna attività finanziaria come posseduta sino alla scadenza (Htm) se ha, nel corso dell’esercizio corrente o dei due precedenti, venduto o riclassificato un importo non irrilevante di investimenti held to maturity - in relazione al portafoglio complessivo Htm - prima della loro scadenza (Ias 39, paragrafo 9).
 
Anche riguardo alle caratteristiche dello strumento finanziario (si ricorda: perché scatti il costo ammortizzato, è necessario che i cash flow contrattuali siano rappresentati esclusivamente dagli interessi – a date prestabilite – sul capitale nominale e dal rimborso di quest’ultimo), la guida applicativa si mostra più aperta rispetto alla nuda esposizione della regola, ammettendo il superamento del contractual cash flow characteristic test anche (a determinate condizioni) nei casi di strumenti con previsioni di rimborso anticipato, estensione della scadenza contrattuale o variazioni nel timing e nell’ammontare dei pagamenti (interesse e capitale).
Così, ad esempio, supererebbero il test obbligazioni con tasso ancorato a un indice di inflazione (perché legare l’interesse a un indice che misura il livello di inflazione significa assicurare l’interesse effettivo), oppure con tasso variabile (purchè l’interesse rifletta la remunerazione del “time value” e del “credit risk” associato all’investimento).
 
Volendo trarre delle conclusioni, l’Ifrs 9 condurrebbe a questa classificazione delle attività finanziarie:
  • azioni detenute per la negoziazione: fair value a conto economico
  • azioni non detenute per la negoziazione: fair value a conto economico o fair value a patrimonio netto, senza recycling
  • titoli di debito: costo ammortizzato se superano il business model test e il contractual cash flow characteristic test. Fair value a conto economico negli altri casi oppure quando si esercita la fair value option
  • derivati: fair value a conto economico
  • strumenti di debito con derivati incorporati: dipende dal cash flow contrattuale dello strumento complessivo.
 
Quindi, perché non piace?
A questo punto della discussione occorre introdurre un elemento ulteriore e determinante. Meglio, bisogna rispondere a una domanda: quali sono i principali destinatari degli standard internazionali che regolano la contabilizzazione degli strumenti finanziari e, quindi, anche dell’Ifrs 9? Il quesito è di facile soluzione: le banche. Aziende il cui patrimonio è quasi esclusivamente composto da asset finanziari.
 
E proprio parte del mondo bancario si è fin qui opposto all’omologazione del nuovo principio contabile. Un’opposizione fondata principalmente sull’espansione - vista non di buon occhio - dell’area “fair value” prodotta dall’Ifrs 9. Cosa accadrebbe, si argomenta, se si ripresentasse una situazione di mercati inattivi? Quali perdite si dovrebbero sopportare? Per inciso, uno stop all’espansione del fair value era stato incoraggiato anche dal “comitato di Basilea”.
 
La discussione richiama quella “storica”, che periodicamente rifà capolino nelle pubblicazioni scientifiche del settore: è meglio il fair value o il costo storico? E soprattutto, il fair value può fungere da volano negativo nei mercati in ribasso? La recente crisi indotta dai famosi e famigerati mutui subprime ha condotto a una copiosa produzione di lavori tendenti a dimostrare l’influenza, significativa o meno, del “mark to market”. Il punto, sul tema, non è stato messo. Inconfutabili sono in ogni modo due circostanze:
  1. la contabilizzazione al fair value può amplificare, in un senso o nell’altro, i risultati di breve periodo (a cui tanta cura prestano i manager)
  2. l’assenza di mercati attivi può condurre a una sovraesposizione di strumenti finanziari da fair value di “terzo livello” (mark to model), guardata dai mercati con diffidenza.
 
Una base di partenza per proseguire nelle considerazioni può essere rappresentata dall’analisi degli strumenti finanziari detenuti dalle banche europee. Tanto per porre un’altra questione: che livello di esposizione alle variazioni di fair value c’è attualmente (con le attuali regole)?
 
Uno sguardo all’Europa
Qual è il rapporto delle banche europee con il fair value? Proviamo a dare una risposta esaminando i bilanci consolidati 2009 dei 16 più grandi gruppi creditizi del vecchio continente. La somma delle loro attività (intese come sezione dello stato patrimoniale) toccava - utilizzando i tassi di cambio al 31/12/2009 - i 20 bilioni di euro (moltiplicate 19.851.949 per 1 milione per avere il numero preciso). Una buona massa su cui ragionare. Massa il cui 33,97% era rappresentato da strumenti finanziari misurati al fair value a conto economico, per il 4,23% dei quali le banche avevano sfruttato la fair value option.

 
 
 
Analizzando le singole posizioni, si può notare come i 2 istituti italiani presenti in classifica siano fra i meno esposti alle variazioni di fair value:
 
BANCA
HFT e derivati
Attività designate al FV
Intesa Sanpaolo
11,17%
3,52%
Banco Santander
12,16%
3,41%
Unicredit
15,67%
1,62%
UBS
17,33%
0,76%
Lloyds
7,51%
11,95%
Groupe BPCE
15,82%
3,74%
ING Group
19,57%
0,47%
Crédit agricole
24,14%
2,54%
Commerzbank
26,66%
1,25%
HSBC
28,43%
1,57%
RBS
38,61%
0,40%
Société générale
36,73%
2,91%
BNP
38,12%
2,40%
Barclays
41,20%
3,09%
Crédit suisse
32,40%
22,69%
Deutch bank
55,40%
8,93%
 
I dati sono ordinati per rapporto crescente FVTPL/Asset. In grafica:

 
 
 
Quali conseguenze dall’Ifrs 9?
Una media ponderata di quasi il 34% (rapporto FVTPL/Asset totali) è effettivamente un valore non trascurabile. Anche perché non va dimenticato il fatto che agli strumenti finanziari FVTPL vanno aggiunti gli “Available for sale”, che se non incidono sulla volatilità del conto economico lo fanno a livello di stato patrimoniale.
 
Ma è proprio vero che il nuovo standard allargherebbe ancora di più l’area di applicazione del fair value? Per avere certezza al riguardo bisognerebbe, prima di tutto, conoscere sin da ora (cosa non possibile) i futuri risultati del business model test e del contractual cash flow characteristic test. Risultati che influirebbero sulla classificazione dei prestiti alla clientela, dei titoli di Stato, delle obbligazioni private.
 
Sicuramente sarebbero destinati al FVTPL i bond convertibili e strutturati, oggi spesso accasati fra i “L & R” o fra gli AFS (fatta eccezione per il derivato incorporato, comunque misurato al fair value).
Senza dimenticare, poi, attività finanziarie come i CDO (sicuramente al fair value quelli “sintetici”) e i titoli cartolarizzati (Asset backed securities), per i quali è richiesto il “look through approach”, vale a dire, molto semplicemente, l’analisi non del prodotto detenuto ma di ciò che c’è dietro sul quale va condotto il contractual cash flow characteristic test.
 
Un inciso: sarebbe davvero un male se le banche fossero costrette, per non sbilanciarsi troppo sul fair value, ad allontanarsi un po’ da sofisticati prodotti finanziari?
Comunque la si veda su questo punto, è certo che la discussione creatasi intorno all’Ifrs 9 ne sta catalizzando un’altra: lo Iasb, nello sviluppo di uno standard, dovrebbe essere guidato dalla sola ricerca della migliore informativa per il pubblico, oppure dovrebbe anche tener conto dal relativo impatto micro e macro economico? Un dibattito “promosso” ultimamente anche dall’Efrag e che vale sicuramente la pena di approfondire.
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