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Analisi e commenti

L’imposta di successione:
storia di un tributo complesso

Dall’Unità d’Italia a oggi si sono succeduti una settantina di provvedimenti in materia di tassazione dei beni ereditari. Una panoramica sulle principali caratteristiche

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Se si prescinde dalla vigesima hereditatum di Augusto (7 d.C.) e da tributi presenti anche negli Stati italiani della prima età moderna (come il “quintello” veneziano del 1565), il moderno prelievo sulle successioni nacque nel 1704 in Francia come una costola dell’imposta di registro. Il semplice compenso per il servizio di autenticazione e datazione dei testamenti fu trasformato in un’imposta sulle quote ereditarie articolata per grado di parentela, “avuto riguardo alle considerazioni morali che fanno giudicare maggiore il vantaggio che si acquista, se minore e meno legittima era l’aspettativa di lucro, e più lontana o inesistente affatto la relazione di famiglia e di parentela”, come avrebbe sintetizzato uno stampato parlamentare italiano del 1863.

L’esempio francese (da ultimo, legge 22 frimaio dell’anno VII – 12 dicembre 1798) fece scuola in quasi tutta Italia durante il periodo napoleonico. Dopo la Restaurazione, sei dei sette Stati preunitari avevano un’imposta modellata su quella d’oltralpe; se ne distingueva solo il Regno delle Due Sicilie, dove vi erano lievi diritti fissi sui testamenti. Laddove era applicato, il prelievo subiva comunque un temperamento (spesso l’esenzione) sui trasferimenti in linea retta: “prevaleva il concetto che i beni ereditari non fossero oggetto atto alla tassazione, e specialmente che fosse cosa arbitraria, non del tutto legittima toccare i diritti successorii dei membri della famiglia” (Ricca-Salerno). Con l’Unità si estese a tutto il paese il sistema piemontese, ritenuto il più oneroso di tutti, se non altro perché colpiva anche all’interno del nucleo familiare. La prima legge del 1862 (legge 585) risultò molto esosa e fu corretta nel 1866 (regio decreto 3121), dopo l’emanazione del nuovo codice civile. Da allora si sono succeduti almeno un settantina di provvedimenti, di cui riassumiamo le caratteristiche principali.

In questi 150 anni vi sono stati tre tipi di tributi. Alla forma classica di prelievo sulle singole quote degli eredi, sopra accennata, si aggiunse nel 1942 (Rdl 434) l’imposta applicata all’intera eredità prima della divisione in quote (e detta per questo “imposta sul morto”). Le due imposte furono fuse nel 1972 (Dpr 637) in una sola “a due stadi” (estesa anche ai beni all’estero): il prelievo sul valore globale era l’unico dovuto fra coniugi e parenti in linea retta, mentre per tutti gli altri eredi si applicava anche quello sulle quote. La riforma del 2000 (legge 342) cancellò anche questo residuo, ripristinando la sola imposta sulle quote; questa fu abolita nel 2001 (legge 383) per coniugi e parenti fino al 4° grado e reintrodotta nel 2006 (Dl 262). Ebbe invece vita breve, dal 1919 (Rdl 2163) al 1923, la tassa successoria complementare che colpiva con aliquote dal 5% al 10% i beni devoluti a eredi in linea collaterale o non imparentati, destinatari di una quota non inferiore a 200mila lire dell’epoca (circa 250mila euro odierni) e titolari di un patrimonio di importo non minore.

Nel complesso i tre prelievi hanno visto 23 scale d’aliquota. Dopo le prime cinque tariffe proporzionali, nel 1902 (legge 25) ne fu adottata una progressiva, la prima di tutto il nostro sistema tributario. La ragione di tale scelta, come scritto nella relazione, era l’esigenza di “portare un elemento di più giusta distribuzione nel carico tributario affidato com’è questo ad imposte reali (sui redditi; n.d.r.) rigide e inadatte alla progressione, o ad imposte indirette (accise e dazi di consumo; n.d.r.) per sé stesse inversamente progressive”. La funzione redistributiva fu accentuata con il passaggio nel 1914 (Rd 1042) alla progressività per classi, cioè sull’intera quota ereditaria; le complesse regole volte a evitare bruschi salti d’imposta al passaggio fra classi trasformarono l’imposta, secondo Einaudi, in un vero e proprio “rompicapo contabile”.

Con la riforma del 1923 (Rd 3270, primo testo legislativo separato da quello del registro) ci fu un deciso cambiamento: fu reintrodotta la progressività per scaglioni e, soprattutto, fu stabilita l’esenzione per tutti i trasferimenti fra coniugi, in linea retta e fra parenti fino al terzo grado compreso. Tale novità sopravvisse nella sua versione originale fino al 1930 (Rdl 431), quando la politica demografica del regime fascista portò prima a limitare l’esenzione ai trasferimenti all’interno di famiglie con più di un figlio e poi (Rdl 1749/1935) a introdurre un complicato sistema di maggiorazioni e riduzioni collegate a stato civile e numero di figli del defunto e degli eredi.

Nel secondo dopoguerra si eliminarono tanto l’esenzione nel nucleo familiare quanto i meccanismi demografici (Dll 90/1945 e legge 206/1949). I due prelievi vigenti, decisamente inaspriti, furono coordinati, disponendo che l’importo di quella sul valore globale fosse prima ripartito fra gli eredi e quindi dedotto dalla singola quota ereditaria. Dopo la fusione dei due tributi e delle relative scale progressive nel 1972, si ebbero solo modifiche secondarie, fino al 2000, quando si tornò a un prelievo proporzionale con un’esenzione, per coniuge e figli, di 350 milioni di lire per erede; le aliquote sono state ripristinate nella stessa misura nel 2007, con l’esenzione nel nucleo familiare portata a 1 milione di euro per erede.

Numerose le addizionali applicate nel corso del tempo: da quelle belliche del periodo post unitario e del primo conflitto mondiale a quelle per terremoti e alluvioni, passando per il contributo agli enti comunali di assistenza, durato dal 1937 al 1972. Una forma di sostanziale prelievo al 100% può essere considerato il progressivo restringersi della definizione di parenti chiamati a succedere, con conseguente avocazione allo Stato dell’eredità negli altri casi di successione senza testamento: dal dodicesimo grado previsto dal codice albertino si passò al decimo con il primo codice civile italiano per giungere all’attuale sesto nel 1916 (Dll 1686).

I criteri di valutazione sono stati in linea di massima ispirati al principio del valore commerciale, ma con diversi temperamenti ed eccezioni.
  • Per gli immobili furono adottati dapprima il valore locativo (1862-1866), pari a venti volte l’affitto netto, effettivo o presunto, e poi un valore automatico (1866-1874), costituito da un multiplo dell’imposta fondiaria; la successiva adozione del valore commerciale (legge 1947/1874) non ha impedito tentativi di semplificazioni amministrative, come l’uso di tabelle provinciali (1902-1911) o la fissazione di un minimo imponibile (1930), quest’ultimo realizzatosi con la regola, adottata dal 1986 (legge 880), della rinuncia del fisco ad accertamenti se il valore dichiarato è pari a un multiplo della rendita catastale (ad esempio, 110 per la “prima casa”).
  • Per i titoli si ricorre da sempre a valori di mercato ritraibili dai listini, con l’eccezione dei titoli di Stato, esentati a partire dal 1893 in base alle singole leggi di emissione e poi, dal 1963, con il testo unico sul debito pubblico (Dpr 1343).
  • Per le aziende, solo dal 1918 (Dll 629) è prevista la separata descrizione di aziende e quote di partecipazione; per contro, l’avviamento è stato esentato da imposta nel 2000 e nel 2006 è stata introdotta un’esenzione (condizionata) per i trasferimenti di aziende familiari.
  • Una semplificazione amministrativa da sempre adottata riguarda i beni mobili personali, valutati a forfait come percentuale del restante attivo ereditario, percentuale passata nel tempo dal 3% al 10%, man mano che tra tali beni rientravano, oltre alla mobilia, anche gioielli e contante. 
Ovviamente non mancarono regole antievasione. Alcune hanno accompagnato sin dall’inizio la storia del tributo, diventandone parte costitutiva: è il caso dell’estensione del prelievo alle donazioni e delle condizioni per la deducibilità dei debiti (certezza, liquidità, forma dell’atto, data anteriore, eccetera). Altre si sono sviluppate successivamente come risposta a problemi di accertamento sorti lungo la storia del tributo.
  • Nel 1887 (legge 4072) si stabilì per l’erede l’impossibilità di agire in giudizio o presso la pubblica amministrazione senza la prova della denuncia e del pagamento dell’imposta.
  • L’anno successivo ha inizio la trafila di norme volte a “catturare” i cespiti più sfuggenti (benché nella realtà economica sempre più rilevanti), vale a dire titoli e altre attività finanziarie. Le regole erano per lo più divieti o obblighi imposti a terzi, come emittenti, intermediari o pubblici ufficiali: divieto di consegna agli eredi (legge 5515/1888), divieto di annotazione nei libri degli emittenti (legge 486/1895) e divieto di “traslazioni” di rendite in mancanza di denuncia (legge 509/1911); obbligo di giustificare all’ufficio del registro qualità e valore di cose depositate (Rd 5603/1888), tenuta di un registro dell’apertura di cassette di sicurezza (Rdl 2163/1919). Le soluzioni a questo problema presero anche la forma di spin-off normativi “esterni” alla disciplina delle successioni, come gli inasprimenti dell’imposta di negoziazione per i titoli al portatore e la previsione della nominatività obbligatoria. Nonostante ciò, l’imposta ha continuato a gravare in prevalenza sugli immobili (68% dell’asse ereditario nel 1885-86, 84% nel 2000).
  • Dal 1902 l’imposta fu applicata anche alle somme già oggetto di donazione e al beneficiario di un’eventuale rinunzia da parte dell’erede; dal 1916 (Dll 1058) furono tassate le vendite simulate tra parenti, se il prelievo successorio risultava superiore a quello dovuto per il trasferimento.
  • Nel 1918 (Dll 629) il fisco acquisì il diritto di consultare i libri contabili delle aziende anche ai fini dell’accertamento dell’imposta di successione e di utilizzare le informazioni acquisite per definire le imposte sui redditi; nello stesso anno (Dll 575) fu aggiunta la trascrizione obbligatoria dei testamenti e di successioni comprendenti beni immobili.

Quale l’importanza dell’imposta?
Idealmente, l’imposta era tenuta in grande considerazione in epoca liberale (Mill) anche nella sua forma progressiva (Say, Wagner, Sax): in Italia, Giulio Alessio sosteneva nel 1887 che “l’imposta può provvedere ad impedire eccessive accumulazioni o a regolare in modo più equo la ricchezza privata”, descrivendola come un “quasi omaggio” al principio che “la ricchezza dell’uomo si ottiene per mezzo del lavoro” proprio e non altrui. La riforma del 1923 si accompagnò a un ripensamento in direzione opposta: il fascismo antepose “un senso di doveroso rispetto all’istituto famigliare, anche nel suo elemento patrimoniale” (così la relazione governativa) al principio liberale di eguaglianza dei punti di partenza e preferì considerare l’imposta un ostacolo alla creazione di ricchezza, anziché un correttivo.

Scientificamente, a cavallo tra Ottocento e Novecento il tributo fu strumento di studi “macroeconomici”: era utilizzato per stimare la “ricchezza nazionale” (intesa allora come patrimonio, non come reddito), moltiplicando gli attivi rilevati per il tempo medio intercorso fra due successioni. Per questo fu anche la prima imposta per la quale si tentarono stime quantitative dell’evasione, come mostrano i lavori di Corrado Gini e altri. Si può inoltre ricordare il contributo di Eugenio Rignano, discusso anche in altri Paesi, per un prelievo destinato, nell’arco di tre successioni, ad avocare allo Stato l’intera eredità.

Concretamente, il gettito del prelievo è stato massimo (in termini relativi) in epoca liberale quando oscillava per lo più tra lo 0,2 e lo 0,3% del Pil e tra il 2 e il 2,5% del gettito tributario complessivo. Il ridimensionamento ideologico del 1923 si tradusse anche in uno quantitativo, con quote di gettito scese tra 0,05 e 0,1% del Pil e 0,5 e 1% delle entrate. Solo il sistema della doppia imposta e l’aggravio delle aliquote consentì nel secondo dopoguerra una ripresa (rispettivamente 0,15-0,2% del Pil e 1-1,5% delle entrate). Quando, con la riforma del 1972, tali fattori sparirono o si attenuarono, il gettito tornò a scendere, risultando inferiore allo 0,1% del Pil e all’1% delle entrate. Nel 2000 i modesti proventi, comparati con quelli che furono stimati come oneri di gestione, divennero un argomento per sostenere la soppressione del prelievo. Dopo la reintroduzione nel 2007, il gettito si è attestato poco sotto 0,5 miliardi di euro annui, pari a circa lo 0,03% del Pil e lo 0,1% delle entrate tributarie.

Infine, un ultimo cenno merita un aspetto particolare dell’amministrazione del tributo: la remunerazione degli ufficiali del Registro, i funzionari incaricati (fino alla recente unificazione degli uffici) di accertamento e riscossione. Dal 1862 (Rd 612), nel periodo di maggior gettito, il compenso era ad aggio, calcolato cioè sui proventi delle imposte, con percentuali comprese fra 1 e 0,25‰ e con le spese per commessi e uffici a carico degli ufficiali. Nel 1908 (legge 744) fu introdotto un minimo di proventi netti, per evitare penalizzazioni ai funzionari che lavoravano nelle aree più povere. Solo nel 1922 (legge 1290) gli stipendi fissi furono estesi a tutto il personale addetto a Bollo e Registro.
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