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Analisi e commenti

Una mappa per la caccia al tesoro fiscale (2)

Riqualificazione contrattuale, interposizione, elusione e legittimo risparmio d'imposta. Tratti distintivi

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Ogni atto o negozio giuridico posto in essere dal contribuente è suscettibile di produrre effetti fiscali; il che impone agli organi inquirenti dell'Amministrazione finanziaria di appurare quale ne sia l'effettiva natura giuridica. È evidente che qualora si dimostri che l'effettiva natura dell'atto o negozio giuridico è diversa da quella dichiarata e rilevante ai fini fiscali, andranno applicate le imposte derivanti dall'atto o negozio giuridico riqualificato.

Un problema di riqualificazione contrattuale si porrà ogni qual volta il contribuente abbia dato un nomen iuris a un determinato atto o negozio giuridico, non corrispondente agli elementi essenziali astrattamente previsti e al successivo comportamento tenuto dai contraenti (ad esempio, dichiaro di porre in essere una compravendita e, difatti, vi sono tutti gli elementi essenziali di una donazione, oltre a comportarmi come se avessi posto in essere una donazione; si dichiara di costituire un fondo comune di investimento o una Sicav, ma difatti vi sono tutti gli elementi essenziali di una ordinaria società per azioni, oltre ai comportamenti coerenti con la stessa).
In questi casi, è decisiva un'attenta attività di indagine tributaria, volta a ricostruire l'effettiva volontà delle parti e il comportamento tenuto dalle stesse dopo la formale stipulazione dell'atto o del negozio giuridico. Verranno in soccorso gli ordinari canoni di interpretazione dei contratti previsti dagli articoli 1362 e seguenti del Codice civile. Di conseguenza, la prova della riqualificazione sarà rinvenuta sulla base delle predette ordinarie regole ermeneutiche.
Una volta dimostrata la riqualificazione contrattuale, le imposte dovute saranno calcolate sull'atto o negozio giuridico riqualificato.

Interposizione reale e fittizia
Dalla riqualificazione contrattuale va tenuta distinta l'interposizione nel possesso dei redditi.
A tal fine, si devono tenere ben separate due differenti tipologie di interposizione nel possesso dei redditi: quella fittizia e quella reale. La differenza tra le due sta nella natura, fittizia o meno, della rappresentazione all'esterno della situazione di possesso dei redditi.

In caso di interposizione fittizia, il reddito appare all'esterno posseduto da un contribuente, ma difatti è posseduto da un altro; nell'interposizione reale, il reddito è effettivamente posseduto da un contribuente, il quale è, però, concretamente o potenzialmente obbligato a trasferirlo a un altro.
Per chiarire il concetto appena esposto valga il seguente esempio: il contribuente Neri effettua una prestazione di servizi da cui ricava un provento; tuttavia, la prestazione è fatturata da un altro contribuente (Bianchi) che incassa il prezzo e lo rigira "in nero" al primo contribuente.
Si supponga adesso che il contribuente Bianchi, per effettuare la prestazione di servizi, costituisca all'uopo una società di comodo, la quale si rivolge allo stesso Bianchi per ottenere il servizio che le viene richiesto dal committente; in questa ipotesi, Bianchi fattura alla società il servizio prestato, la società fattura al committente il servizio prestato e introita il prezzo, che viene utilizzato per pagare la prestazione resa da Bianchi.
Mentre nel primo caso, al Fisco è rappresentata una realtà fittizia (la prestazione fatturata da Bianchi è stata effettuata e incassata da Neri), nel secondo caso il Fisco è messo nelle condizioni di individuare ictu oculi l'effettivo prestatore (la prestazione è stata effettuata dalla società costituita da Bianchi, la quale si è rivolta allo stesso Bianchi).

È evidente la fondamentale differenza strutturale tra i due tipi di interposizione.
La prima (quella fittizia) è un'ipotesi di evasione fiscale, che potrà essere penalmente sanzionata come ipotesi di frode fiscale, sussistendone tutti i presupposti previsti dalla legge penale tributaria, mentre la seconda (quella reale) è di incerta qualificazione giuridico-tributaria, potendo, di volta in volta, rappresentare un'ipotesi di evasione fiscale, elusione fiscale o comportamento fiscalmente legittimo.

La dottrina appare unanime nel ritenere applicabile all'ipotesi di interposizione fittizia la disposizione contenuta nel terzo comma dell'articolo 37 del Dpr 600/1973, ai sensi del quale "in sede di rettifica o di accertamento d'ufficio, sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona".
In questo caso, ferma restando la comunicazione della notizia di reato alla competente autorità giudiziaria per la valutazione di eventuali profili penali tributari, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, si potrà contestare al contribuente l'interposizione fittizia in sede di accertamento, anche a prescindere dagli esiti dell'eventuale giudizio penale instauratosi.
Insomma, l'espressa possibilità concessa dalla legge di fondare la dimostrazione dell'interposizione fittizia sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, legittima l'ufficio impositore a procedere autonomamente, a prescindere dalle risultanze penali dell'eventuale processo per frode fiscale.

Passando all'esame dell'interposizione reale, si è detto che la stessa è di incerta qualificazione. Il rilevante problema interpretativo che si pone è come distinguere l'ipotesi del comportamento fiscalmente legittimo da quella dell'evasione fiscale o, ancora, come distinguere l'ipotesi dell'evasione da quella dell'elusione fiscale.
In prima battuta, va rilevato che, in assenza di un'espressa previsione normativa che legittimi l'Amministrazione finanziaria a disconoscere le ipotesi di interposizione reale, la stessa non può che costituire un comportamento fiscalmente legittimo. La bontà di tale affermazione discende dal fatto che in questo caso non si occulta alcun reddito all'Erario.
Il che non esime il legislatore dall'affrontare i fenomeni di interposizione reale, i quali potrebbero comunque consentire ai contribuenti di porre in essere agevoli arbitraggi fiscali favorevoli (ritornando all'esempio sopra proposto, Bianchi potrebbe avere qualche vantaggio fiscale dal costituire una società interposta nell'effettuazione delle prestazioni di servizi da lui comunque effettuabili!).

Invero, nel nostro ordinamento tributario ogni ipotesi di interposizione reale posta in essere dovrà fare i conti con due disposizioni normative, entrambe suscettibili di astratta applicazione: si tratta del già menzionato terzo comma dell'articolo 37 del Dpr 600/1973, nonché dell'articolo 37-bis dello stesso decreto.

Alcuni autori ritengono applicabile anche alle ipotesi di interposizione reale il terzo comma dell'articolo 37, giustificando tale applicabilità sia alla luce dell'ampia formulazione letterale della norma, suscettibile di applicazione a ogni tipo di interposizione, sia alla luce della ratio legis sottesa alla norma, introdotta nel 1989 per contrastare dilaganti fenomeni di interposizione reale mediante costituzione di società di comodo da parte di proprietari di beni (immobili e partecipazioni), cui intestare i beni medesimi.

Tuttavia, tale tesi non appare persuasiva per due motivi.
Il primo è che il fenomeno delle società di comodo è stato nel 1994 disciplinato dal legislatore tributario, con un'apposita previsione normativa contenuta nell'articolo 30 della legge n. 724, volta a colpire con una sorta di minimum tax l'intestazione di comodo di beni.
Il secondo è che l'introduzione nel nostro ordinamento, a partire dal 1990, di una disposizione antielusiva a struttura generale, consente all'Amministrazione finanziaria di colpire in misura più mirata i fenomeni di interposizione reale.
Infatti, ai fini fiscali, l'interposizione reale crea problemi solo a condizione che l'interponente ottenga un beneficio fiscale dalla stessa; diversamente, se il regime impositivo di interponente e interposto è il medesimo, non vi è alcuna convenienza fiscale.

Ebbene, mentre la disposizione antielusiva a struttura generale contenuta nell'articolo 37-bis del Dpr 600/1973 è calibrata anche per contrastare simili comportamenti, l'applicazione del terzo comma dell'articolo 37 non appare calibrata, potendo essere astrattamente applicabile anche in assenza di benefici fiscali derivanti dall'interposizione; è rimesso alla sensibilità degli organi inquirenti, più che all'astratta formulazione normativa, non applicare il terzo comma dell'articolo 37 in mancanza di benefici fiscali.

Elusione fiscale
Siamo così giunti alla categoria concettuale dell'elusione fiscale, che si presenta la più problematica sotto il profilo dell'inquadramento dogmatico.
Nel nostro ordinamento tributario, basato sul principio della prevalenza della forma degli atti giuridici sulla sostanza economica perseguita dalle parti, in mancanza di una disposizione antielusiva a struttura generale volta a contrastare possibili manovre di aggiramento delle fattispecie impositive da parte dei contribuenti, l'elusione fiscale non è contrastabile dall'Amministrazione finanziaria sullo squisito piano tributario.

Per contrastare comportamenti elusivi, si potrà, al massimo, fare ricorso agli strumenti civilistici (dalla frode alla legge e dall'abuso dell'autonomia negoziale all'illiceità dei motivi comuni alle parti e della causa) o a qualche generale nozione anti-abuso di matrice giurisprudenziale, interna o comunitaria.
In ogni caso, dal 1990, il nostro ordinamento tributario si è dotato di una disposizione antielusiva a struttura tendenzialmente generale, suscettibile di contrastare comportamenti posti in essere dai contribuenti in frode alla legge tributaria, ivi compresa - come si è già detto - l'interposizione reale.

In un primo momento, la disposizione era stata inserita nell'articolo 10 della legge 408/1990; da ultimo, la norma è parte dell'articolo 37-bis del Dpr 600/1973.
Ciò che in questa sede occorre mettere in evidenza è il suo ambito di applicazione, alla luce del quale stabilire se un comportamento posto in essere dal contribuente sia in essa riconducibile oppure se occorra far riferimento a qualche altro strumento di contrasto (ad esempio, l'assoluta antieconomicità o la declaratoria di nullità dei contratti stipulati per soli fini fiscali) oppure, ancora, sia ascrivibile al "legittimo risparmio d'imposta".

I presupposti di applicazione dell'articolo 37-bis sono quattro:

 

  1. che almeno uno degli atti e i negozi giuridici, anche tra loro collegati, rientri nell'elenco tassativo di atti e negozi giuridici previsti dal terzo comma dell'articolo 37-bis
     
  2. che gli atti e i negozi giuridici siano diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario
     
  3. che gli atti e i negozi giuridici siano diretti all'ottenimento di risparmi d'imposta, altrimenti indebiti
     
  4. che gli atti e i negozi giuridici siano privi di valide ragioni economiche.

In mancanza anche di uno solo dei predetti presupposti, il comportamento posto in essere dal contribuente non può ritenersi in elusione d'imposta.

Come può agevolmente notarsi, un comportamento assolutamente antieconomico normalmente non potrà al contempo configurare un comportamento elusivo, perché privo dei requisiti sub 1 e 2 e, in parte, anche il sub 3. Il comportamento assolutamente antieconomico è, infatti, normalmente caratterizzato dall'effettuazione di singoli atti o negozi giuridici verso corrispettivi abnormi rispetto ai valori normali di mercato.

Ancora, un singolo atto o negozio giuridico tipico, posto in essere esclusivamente per ottenere un risparmio d'imposta (ad esempio, una fusione esclusivamente finalizzata alla compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali) non potrà essere aggredito con l'articolo 37-bis, perché non suscettibile di configurare un aggiramento di obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario. In questo caso, si dovrà più propriamente parlare di libera determinazione del contribuente nel porre in essere un negozio giuridico o di libera scelta tra più negozi giuridici per ottenere un risultato fiscalmente vantaggioso (si pensi all'alternativa tra mettere in liquidazione una società con assegnazione dei beni al socio o fonderla per incorporazione da parte del socio o, ancora, all'alternativa tra l'assegnazione di beni ai soci e la scissione non proporzionale di una società contenente i beni da dividere tra i soci).
In questi casi, si potrà al limite ragionare sulla configurabilità della nullità del negozio giuridico posto in essere in quanto privo di causa concreta (vedi infra).

In terzo luogo, come si è già rilevato parlando del transfer pricing, non potrà configurarsi alcun problema di interferenza tra la disciplina normativa del transfer pricing e la disposizione antielusiva dell'articolo 37-bis per la semplice ragione, già evidenziata, che nel transfer pricing il beneficio fiscale conseguito è assolutamente irrilevante.

Anche fenomeni di transfer pricing interno, seppure normalmente giustificati dai benefici fiscali conseguibili, sono difficilmente aggredibili con la disposizione antielusiva dell'articolo 37-bis, perché non è configurabile il requisito dell'aggiramento degli obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario, mancando un apposito obbligo in tal senso.

La disposizione antielusiva non è poi suscettibile di colpire comportamenti fittizi posti in essere dai contribuenti (interposizione fittizia, frode fiscale, simulazione eccetera), perché presuppone che gli atti e i negozi giuridici siano effettivi e realmente voluti. L'aggiramento di una fattispecie impositiva non equivale, infatti, a violazione della fattispecie impositiva, perpetrata mediante comportamenti fittizi.

Da ultimo, nel nostro ordinamento tributario l'elusione fiscale si differenzia dall'evasione fiscale non costituente frode fiscale perché quest'ultima presuppone, per sua stessa natura, la "violazione" della legge tributaria, mentre la prima presuppone, per espressa previsione normativa, l'"aggiramento" della legge tributaria che impone obblighi o divieti.

L'ultima spiaggia: la nullità civilistica o il legittimo risparmio d'imposta
Dopo aver evidenziato le differenze concettuali tra l'elusione fiscale, così come codificata dal nostro legislatore tributario, e le altre categorie dogmatiche sopra esaminate (frode fiscale, evasione fiscale non costituente frode fiscale, assoluta antieconomicità, transfer pricing eccetera), abbiamo tutti gli elementi per trarre una rilevante conclusione.
Qualora il comportamento posto in essere dal contribuente di incerta qualificazione giuridica non sia aggredibile dall'Amministrazione finanziaria con uno dei menzionati strumenti, lo stesso dovrà ritenersi ascrivibile alla categoria del cosiddetto "legittimo risparmio d'imposta".

Tuttavia, prima di giungere con sufficiente tranquillità alla predetta conclusione, occorre superare un ultimo ostacolo, cioè domandarsi se non sia possibile ricorrere a qualche strumento di contrasto offerto dal Codice civile.
A tal fine, tre recenti sentenze della Corte di cassazione in materia di dividend washing e dividend stripping(3), preso atto dell'assenza di una disposizione antielusiva a struttura generale applicabile all'epoca dei fatti, hanno ritenuto nulle le predette operazioni, per difetto di causa, ex articolo 1418, secondo comma, del Codice civile, o per frode alla legge, ex articolo 1344 del Codice civile, in quanto poste in essere per esclusive ragioni fiscali.

Ebbene, la ragione ultima dell'iter logico-argomentativo seguito dalla Suprema corte sta nella sostanziale equiparazione tra mancanza di causa concreta e finalità esclusivamente fiscali perseguite con il collegamento negoziale (infatti, le operazioni di dividend washing e dividend stripping si caratterizzano per essere costituite da atti o negozi giuridici tra loro collegati).

Tale ragionamento potrebbe essere esteso ai singoli atti o negozi giuridici posti in essere per finalità esclusivamente fiscali (così, tanto per fare un esempio, se l'Amministrazione finanziaria dovesse acquisire la prova che una fusione è stata posta in essere esclusivamente per compensare infragruppo le perdite fiscali, la fusione sarebbe nulla; ancora, se si dovesse provare che una cessione infragruppo di beni strumentali è stata posta in essere esclusivamente per compensare le perdite fiscali in scadenza, la cessione sarebbe nulla, e così via).

A ben vedere, tale ragionamento, più che applicare fedelmente l'insegnamento della Corte di cassazione, lo traviserebbe, perché lo estenderebbe a disegni elusivi non puri, cioè ad atti e negozi giuridici che, se combinati, non si annullano tra di loro (come avviene tipicamente nelle operazioni di dividend washing e di dividend stripping, in cui schiacciante finalità perseguita dalle parti è ottenere un risparmio d'imposta dallo stacco dei dividendi).

Una singola cessione di beni o una fusione per incorporazione comunque è concretamente idonea a perseguire gli interessi meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento, anche se si prova che è stata posta in essere per esclusivi fini fiscali.
Se si condivide quanto appena detto, allora non rimarrebbe che circoscrivere l'applicabilità della nullità civilistica ai soli disegni elusivi puri.
Tuttavia, questi ultimi, proprio perché composti da più atti o negozi giuridici tra loro collegati, o da singoli atti atipici contenenti più manifestazioni di volontà, sono già aggredibili dalla disposizione antielusiva contenuta nell'articolo 37-bis, ragione per cui non pare necessario scomodare la categoria civilistica della nullità.

2 - fine. La prima puntata è stata pubblicata lunedì 15

NOTE
3. Si tratta delle sentenze 20816, 20398 e 22932 del 2005.

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