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Analisi e commenti

Professionisti stranieri al bivio: tasse su compensi a doppia strada

Il trattamento fiscale dipende dalla presenza o meno di una Convenzione contro le doppie imposizioni

Il primo comma dell’articolo 53 del Tuir individua la categoria dei redditi di lavoro autonomo tra quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Il successivo periodo del medesimo comma risalta l’insormontabile distinzione tra l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo e quella di impresa.
 
Ciò posto, l’esecuzione della prestazione professionale tipica all’interno dello Stato di residenza o in un Paese diverso delimita anche i confini del trattamento tributario dei relativi compensi. In effetti, ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lettera d), del Dpr 917/1986 (Tuir), si considerano prodotti in Italia i redditi di lavoro autonomo derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato. Di converso, l’articolo 25, comma 2, del Dpr 600/1973 stabilisce che sui compensi di lavoro autonomo corrisposti a soggetti non residenti deve essere operata una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 30%, anche per le prestazioni effettuate nell’esercizio di impresa. Sono esclusi dal prelievo i compensi per prestazioni di lavoro autonomo effettuate all’estero da soggetti residenti e quelli corrisposti a stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti.
 
A tal proposito, occorre ricordare che l’articolo 75 del Dpr 600/1973 prevede che nell’applicazione delle norme relative alle imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia. Le vigenti convenzioni internazionali stipulate dall’Italia per evitare le doppie imposizioni, in conformità all'articolo 14 del modello Ocse, prevedono che i redditi che un soggetto residente di uno Stato ritrae dall'esercizio di una libera professione o da altre attività di carattere indipendente sono imponibili soltanto nello Stato di residenza del prestatore, a meno che questi non disponga di una sede fissa stabile in Italia.
 
Professionisti stranieri in Italia
Per il trattamento fiscale da applicarsi in Italia sulle prestazioni di lavoratori autonomi stranieri la normativa interna prevede sostanzialmente due articoli:
  • l’articolo 23, comma 1, lettera d), del Tuir, in base al quale i redditi di lavoro autonomo, tra i quali rientrano anche quelli derivanti da attività artistiche dei non residenti, si considerano prodotti in Italia se le prestazioni da cui derivano sono realizzate nel territorio dello Stato
  • l’articolo 25, comma 2, del Dpr 600/1973, che dispone che sui compensi di lavoro autonomo, corrisposti a soggetti non residenti, deve essere operata una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 30 per cento.
Ne discende che lo straniero che svolge attività artistiche nel nostro Paese è tassato, tramite ritenuta alla fonte, indipendentemente dalla forma con cui esercita la sua attività, salvo che non esista una Convenzione sulle doppie imposizioni che disponga diversamente.
 
La normativa interna
Nei confronti dei non residenti che effettuano prestazioni di lavoro autonomo verso sostituti d’imposta residenti, la disciplina fiscale italiana impone l’effettuazione della ritenuta del 30% a titolo d’imposta. Il concetto di “soggetto non residente” è contenuto nell’articolo 2, comma 2, del Tuir per le persone fisiche, e dall’articolo 73, comma 3, del Tuir per le persone giuridiche, oltre a essere stato definito e ampliato dalla giurisprudenza e della prassi in presenza di determinate condizioni di fatto.
 
Si evidenzia che nell’ambito del lavoro autonomo devono essere sottoposti alla ritenuta anche i rimborsi spese, in quanto rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 53 del Tuir. Se la prestazione di lavoro autonomo è effettuata fuori dal territorio nazionale, il compenso non è assoggettato a ritenuta, indipendentemente dalla circostanza che i servizi resi siano utilizzati in Italia.
 
Il regime convenzionale
La normativa interna è destinata a non essere applicata in presenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni vigente fra l’Italia e lo Stato estero di residenza del prestatore. L’articolo 75 del Dpr 600/1973 dispone infatti: “Accordi internazionali – Nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”. Il modello Ocse, cui usualmente tali Convenzioni fanno riferimento, determina la tassazione dei redditi di impresa nello Stato dove l’impresa ha sede, a meno che non vi sia la presenza, in altro Stato, di una sua stabile organizzazione (articolo 7); il reddito derivante dalle “professioni indipendenti” (ovvero dall’esercizio di lavoro autonomo, secondo i canoni della legislazione italiana), autonomamente regolato dall’articolo 14 del modello Ocse fino al 29 aprile 2000, è oggi considerato assoggettato alle previsioni dell’articolo 7.
 
I redditi prodotti da stabili organizzazioni
Se il compenso viene corrisposto a una stabile organizzazione italiana (riconducibile, per sua natura, a un soggetto non residente) non sarà assoggettato a ritenuta, poiché la stabile organizzazione sconta l’imposizione nel territorio nazionale. Con riferimento a quest’ultima eccezione, si osserva che essa dovrà essere interpretata letteralmente come riferita alle sole prestazioni imprenditoriali. Ciò sia perché l’espressione “stabile organizzazione”, ormai tipizzata nel nostro ordinamento dall’articolo 162 del Tuir, si riferisce esclusivamente ad attività di natura imprenditoriale, sia perché nel caso di “base fissa” (con cui si indica l’autonomo centro di imputazione di interessi giuridico-tributari sito nel territorio nazionale e svolgente attività di lavoro autonomo) scatterebbe l’ordinario obbligo di ritenuta previsto nei confronti dei “soggetti” esercenti attività di lavoro autonomo nel territorio dello Stato.
 
Questo perché il citato articolo 25, comma 2, ricalca il disposto dell’articolo 23, comma 1, lettere d) ed e), del Tuir, che assoggetta a imposizione, specularmente, i redditi derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato, e in particolare, con riferimento al reddito d’impresa, soltanto quelli prodotti mediante stabili organizzazioni.
 
Il ruolo delle Convenzioni
Laddove vi sia una Convenzione internazionale tra l’Italia e lo Stato estero di residenza del prestatore, si evidenzia che dovrà essere controllato il concetto di residenza considerato dall’accordo internazionale, concetto che può differire o essere maggiormente esteso rispetto alla normativa interna.
 
L’articolo 4 Ocse ricomprende espressamente in tale definizione anche situazioni di fatto, quali il “centro di interessi vitali”; con riferimento ai redditi di lavoro autonomo (definiti dal modello Ocse come “professioni indipendenti”), le Convenzioni stipulate dall’Italia prevedono una elencazione delle fattispecie, anche se non esaustiva, in ossequio al modello Ocse vigente fino al 29 aprile 2000.
 
Ad esempio, la Convenzione Italia-Georgia, sottoscritta a Roma il 31 ottobre 2000, precisa all’articolo 14 che “l'espressione «libera professione» comprende in particolare le attività indipendenti di carattere scientifico, letterario, artistico, educativo o pedagogico, nonché le attività indipendenti dei medici, avvocati, ingegneri, architetti, dentisti e contabili”.
 
Sempre con riferimento ai redditi di lavoro autonomo, alcune Convenzioni stipulate dall’Italia stabiliscono un criterio suppletivo per la tassazione nel Paese estero; ad esempio, la Convenzione Italia-Ghana stabilisce, all’articolo 14, che il contribuente residente è tassato anche nell’altro Stato contraente ove vi dimori “per un periodo o periodi pari o superiori a 183 giorni complessivi nell'arco di un periodo di dodici mesi che inizi o termini nel corso dell'anno fiscale considerato; in tal caso i redditi sono imponibili nell'altro Stato ma unicamente nella misura in cui sono percepiti in corrispettivo di attività esercitate in detto altro Stato”.
 
Particolarmente, per il caso delle “professioni indipendenti”, appare quindi opportuno, dopo l’esame della normativa nazionale, il controllo sulla eventuale sussistenza di Convenzioni internazionali tra l’Italia e lo Stato di interesse, per verificare i requisiti elencati.
 
Il concetto di residenza
L'articolo 2, comma 2, del Tuir stabilisce che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d'imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. Pertanto, gli elementi che determinano la residenza fiscale in Italia sono:
  • l’iscrizione nelle anagrafi comunali della popolazione residente
  • il domicilio nel territorio dello Stato, ai sensi dell’articolo 43, comma 1, del codice civile
  • la residenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell'articolo 43, comma 2, del codice civile.
Dal dettato testuale della norma emerge chiaramente che i citati requisiti sono tra loro alternativi e non concorrenti: è, pertanto, sufficiente il verificarsi di uno solo di essi affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia. In tal caso, perciò, occorre rifarsi alle nozioni civilistiche di residenza e di domicilio e all'interpretazione che di esse ha fornito la Corte di cassazione.
 
La residenza è definita dal codice civile come “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. Pertanto, è possibile affermare che essa è determinata dall'abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono a instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia l'elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale, estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente compenetrata nel primo elemento (Cassazione, sentenza 791/1985).
 
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'affermare che affinché sussista il requisito dell'abitualità della dimora non è necessaria la continuità o la definitività (Cassazione, sentenza 2561/1975; sezioni unite, sentenza 5292/1985). Così, l'abitualità della dimora permane qualora il soggetto lavori o svolga altre attività al di fuori del territorio dello Stato, purchè conservi in esso l'abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l'intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali (Cassazione, sentenza 1738/1986).
 
Secondo quanto previsto dall’articolo 43 del codice civile, il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito “la sede principale dei suoi affari ed interessi”. Alla luce di tale disposto, la giurisprudenza prevalente sostiene che il domicilio è un rapporto giuridico col centro dei propri affari e prescinde dalla presenza effettiva in un luogo (Cassazione, sentenza 3322/1960). Esso consiste, dunque, principalmente in una situazione giuridica che, prescindendo dalla presenza fisica del soggetto, è caratterizzata dall'elemento soggettivo, cioè dalla volontà di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi (Cassazione, sentenza 884/1968).
 
La locuzione “affari ed interessi” deve intendersi in senso ampio, comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica, ma anche morali, sociali e familiari (Cassazione, sentenze 3586/1968 e 435/1973); sicché, la determinazione del domicilio va desunta alla stregua di tutti gli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, denuncino la presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti e il carattere principale che esso ha nella vita della persona (Cassazione, sentenza 2936/1980).
 
La documentazione richiesta dalla prassi convenzionale
Se viene applicata una Convenzione che prevede un trattamento più favorevole rispetto al Dpr 600/1973 (ovvero che non contempla l’imponibilità del reddito del percettore in Italia, escludendo quindi l’obbligo di ritenuta, o che determina la ritenuta a un’aliquota inferiore), tale trattamento sarà applicato dal sostituto d’imposta previa consegna, da parte del prestatore di servizi, di un attestato dell’autorità fiscale straniera, certificante l’esistenza delle condizioni richieste ai fini dell’applicazione del regime convenzionale, ovvero la residenza fiscale nello Stato estero e l’imponibilità in tale Stato dei redditi a questo imputabili.
 
Inoltre, il prestatore dovrà consegnare al sostituto d’imposta una dichiarazione relativa al periodo di complessiva permanenza in Italia nell’anno solare, nonché la dichiarazione di non possedere in Italia una stabile organizzazione o base fissa.
 
Assenza di una Convenzione e finalità della documentazione
Ove non sia presente una Convenzione contro le doppie imposizioni e il sostituto non ritenga di dover effettuare la ritenuta, la risoluzione ministeriale del 3 febbraio 1977, prot. n. 762, per il caso di una prestazione di lavoro autonomo, ha precisato che il sostituto d’imposta “dovrà acquisire la necessaria documentazione (certificato dell'autorità straniera attestante che il professionista è residente ai fini fiscali nello Stato estero, dichiarazione del beneficiario di aver effettuato la prestazione a favore della impresa italiana nello Stato estero) … per giustificare la mancata trattenuta sulle somme corrisposte al professionista in parola e non incorrere, quindi, nella responsabilità che la vigente legislazione addossa al sostituto d'imposta”.
 
La risoluzione ha anche evidenziato “l'opportunità che le imprese nazionali che versano all'estero somme a professionisti ivi residenti per prestazioni effettuate nello Stato straniero avvertano i professionisti stessi che è nel loro interesse produrre la menzionata documentazione la cui acquisizione è condizione necessaria per la non effettuazione della ritenuta”.
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