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Analisi e commenti

Proventi illeciti comunque tassati. Per essi nessuna immunità fiscale

L’azione dell’Amministrazione finanziaria può peraltro avviarsi prima della conclusione del processo penale

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La tassazione dei proventi illeciti rileva senza dubbio sotto vari profili, sia latu sensu etico, come giusta reazione a comportamenti riprovevoli, sia prettamente giuridico ed economico, come giusta imposizione su redditi comunque non dichiarati.
I piani di contrasto in tale campo possono peraltro essere molti.

Con la legge 136/2010, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 23 agosto scorso, del resto, è stato stabilito che indagini fiscali, economiche e patrimoniali possono essere avviate oltre che nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, anche per i sospettati di crimini messi in atto in forma organizzata, come i sequestri di persona, lo sfruttamento della prostituzione, l’introduzione e il commercio nello Stato di prodotti falsi e altri ancora.
Naturalmente, le stesse indagini possono, a maggior ragione, essere indirizzate anche nei confronti di chi, per gli stessi crimini, è stato addirittura condannato, sebbene con sentenza non definitiva.

L’articolo 7 della legge 136/2010, prevede, in particolare, che tutti i dati e le informazioni acquisiti dai militari della Guardia di finanza possono essere utilizzati per gli accertamenti fiscali, ai fini Iva e delle imposte sui redditi, a meno che il contribuente indagato dimostri che gli stessi redditi sono stati comunque in qualche modo dichiarati.
Questo è dunque un primo, importante, canale normativo.

Ma, potremmo dire in via ordinaria, l’Amministrazione finanziaria può sempre accertare maggiori redditi derivanti da proventi illeciti.
L’articolo 14, comma 4, della legge 537/1993 già da tempo stabilisce infatti che “nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”.
Per chi commette delitti da cui deriva un determinato provento, dunque, non vige alcuna immunità fiscale.

In tal senso, anche di recente, si sono avute alcune sentenze che hanno confermato la legittimità dell’azione erariale.
L’ufficio di Thiene (VI), per esempio, ha emesso tre avvisi di accertamento nei confronti di un broker che non aveva versato ai propri clienti 400mila euro di premi riscossi e che, a seguito dell’avvio dell’azione penale nei suoi confronti, aveva patteggiato la pena.
Contro i suddetti avvisi, peraltro, il broker ha fatto ricorso alla Ctp di Vicenza, che ha però respinto l’istanza.

La Corte di cassazione ha infatti già stabilito che il patteggiamento costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario nel processo relativo alla legittimità dell’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione dei proventi illeciti.
L’azione del Fisco, peraltro, potrà avvenire anche quando il procedimento penale non sia ancora concluso; quindi, anche senza che vi sia già una sentenza di patteggiamento o di condanna.

Tali considerazioni sono state ancora confermate dalla Corte suprema con l’ordinanza 37/2010, nella quale i giudici di legittimità hanno stabilito che “laddove il professionista incaricato dal contribuente di effettuare i versamenti relativi alle imposte in luogo del pagamento si sia appropriato dei fondi al medesimo affidati le somme devono ritenersi provento illecito ai sensi dell’art. 36, D.L. n. 223/2006 riconducibile nella categoria dei redditi diversi”.
Nel caso di specie, il commercialista era ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Ctr della Toscana con la quale, rigettando gli appelli riuniti del contribuente, era stata confermata la legittimità degli avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti per la ripresa a tassazione, quali redditi diversi, delle somme che il commercialista aveva ricevuto da vari clienti e delle quali, anziché versarle al Fisco, si era poi appropriato.

L’applicazione del principio della tassazione sui proventi illeciti, del resto, non vale solo per gli accertamenti ai fini delle imposte dirette, ma anche per il recupero della relativa Iva.
Con la sentenza 24471/2006, la Cassazione ha infatti affermato che, in forza dell’articolo 14, comma 4, della legge 537/1993, le attività illecite sono sempre soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all’Iva.
Secondo la Corte, in ogni caso l’attività illecita deve essere soggetta all’Iva in base ai principi dell’ordinamento comunitario, a cui l’Italia non può sottrarsi, secondo i quali, se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente e illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite e illecite.

Da notare però come una recente ordinanza della Corte di giustizia (C-381/09), seguendo proprio tale ragionamento, ha stabilito che l’attività usuraria non può essere soggetta a Iva in quanto deve essere assimilata alla concessione lecita di prestiti, attività esente dall’imposta, dato che, dice la Corte, non è affatto esclusa una concorrenza tra i prestiti illeciti a usura e i crediti leciti a tassi di mercato normale, laddove, comunque, la sesta direttiva e il principio comunitario di neutralità fiscale non distinguono fra crediti leciti e crediti illeciti.
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