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Analisi e commenti

Rivalsa e detrazione a garanzia
della neutralità fiscale - 2ª parte

È obbligatoria la sola costituzione del diritto di credito, non il suo esercizio: quando maturato con l'addebito in fattura, il soggetto passivo può anche decidere di non avvalersene

La rivalsa dell’Iva nel sistema europeo e nazionale è il tema del secondo contributo sulla rassegna di giurisprudenza, europea e nazionale, dedicata ai principi fondanti il meccanismo dell’imposta sul valore aggiunto.
 
Principi generali e caratteristiche della rivalsa
Nella direttiva Iva non vi è nessun espresso diretto riferimento al concetto giuridico della rivalsa. Ciò nonostante, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha più volte ribadito come il principio del sistema comune dell'Iva consiste nell'applicare ai beni e ai servizi, fino allo stadio del commercio al minuto, un'imposta generale sul consumo esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi (Corte di giustizia, sentenza 11/10/2007, C-283/06, KÖGÁZ).
Secondo la giurisprudenza dell’Unione, il sistema comune dell'Iva poggia in particolare su due principi. Da un lato, l'Iva viene riscossa su ogni prestazione di servizi e su ogni cessione di beni effettuate a titolo oneroso da un soggetto passivo. Dall'altro, il principio di neutralità fiscale si oppone a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati diversamente in materia di riscossione dell'Iva (Corte di giustizia, sentenze: 18/10/2007, C-97/06, Navicon SA; 16/09/2004, C-382/02, Cimber).
 
Sulla scorta dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza europea, i giudici nazionali di legittimità hanno delineato, nel tempo, le condizioni per l’esercizio della rivalsa.
In particolare, la suprema Corte ha chiarito che, in tema di Iva, in base alla disciplina dettata dal Dpr 633/1972, la qualità di imprenditore societario è condizione unicamente per rendere assoggettabili a Iva le operazioni attive (Cassazione, sentenza 17299/2014).
La giurisprudenza della suprema Corte ha chiarito che, ai fini dell'esercizio della rivalsa, si rende necessaria la fatturazione, potendo la stessa avvenire all'atto della ricezione del compenso ovvero, alternativamente, al momento stesso della prestazione del servizio. La fatturazione all'atto della ricezione del pagamento, prevista per i prestatori di servizi, è una facoltà concessa agli stessi, i quali possono anche validamente fatturare, registrando la relativa imposta, al momento della prestazione del servizio stesso, che costituisce, dal punto di vista civilistico, l'evento generatore anche del credito di rivalsa Iva, autonomo rispetto al credito per la prestazione, ma a esso soggettivamente e funzionalmente connesso (Cassazione, sentenze 17876/2013, 8222/2011, 15690/2008, 6149/1995).
 
La rivalsa dell’Iva è obbligatoria
In proposito, la giurisprudenza nazionale di legittimità ha chiarito che l'obbligatorietà della rivalsa si risolve nell'obbligatorietà della costituzione del diritto di credito del cedente nei confronti del cessionario per l'importo dell'Iva in relazione alla specifica operazione imponibile e tale è l'effetto giuridico rispetto al quale la legge prevede la nullità di ogni patto contrario. La sanzione di nullità del patto contrario è stabilita a favore del Fisco (nella sostanza si tratta di una inopponibilità), il quale non può vedersi opporre accordi che possano compromettere il suo credito verso il cedente. L'obbligo si risolve nel compimento dell'atto giuridico che consiste nell'addebito dell'imposta in fattura, ma non impone in concreto di esercitare la rivalsa. In altri termini, il soggetto passivo Iva non può decidere se esercitare o meno la rivalsa, ma ciò che è obbligatorio è la costituzione del diritto di credito e non già il suo esercizio. Ne discende che, maturato a favore del soggetto passivo il credito di rivalsa con l'addebito in fattura, tale soggetto può disporre del suo credito e non esercitarlo e ciò può avvenire anche in forza di accordi contrattuali (Cassazione, sentenza 17876/2013).
 
L’obbligatorietà della rivalsa comporta, ai sensi del comma 2 dell’articolo 18 del Dpr 633/1972, la nullità di ogni patto contrario. Ciò non vieta che l'Iva, su accordo delle parti, sia compresa nel prezzo globalmente pattuito, ma la legittimità di un tale accordo presuppone che questo non incida sulla titolarità passiva del debito di imposta e sulle modalità del suo adempimento e si risolva unicamente nell'individuazione del ricavo dell'operazione nel corrispettivo stabilito al netto dell'imposta. Ne consegue che rientra nel potere discrezionale del giudice di merito l'accertamento della volontà delle parti nel concordare un prezzo dell'appalto comprendendo in esso anche l'ammontare dell'imposta (Cassazione, sentenze 10052/2013, 24372/2011, 21201/2005, 16007/2002).
 
Successivamente all’esercizio della rivalsa, se per le vicende inerenti il rapporto con la controparte è tenuto a restituire il compenso ricevuto, deve restituire anche la somma ricevuta per l'addebito dell'imposta in ragione della rivalsa, essendo questa divenuta indebita, per effetto della risoluzione (cfr Cassazione, sentenze 9004/2015, 23849/2008, 1190; così Cassazione 23849/2008, in conformità con Cassazione 6419/2003, 12719/2004, 18686/2008, 12146/2009, 2826/2010, 2/2014).
 
Il credito Iva da rivalsa è assistito da privilegio speciale.
Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, al credito di rivalsa dell'Iva spettante al cedente di beni o al prestatore di servizi va riconosciuto il privilegio speciale dell'articolo 2758 cc, comma 2, sui beni che hanno formato oggetto della cessione o ai quali si riferisce il servizio, e non anche il privilegio generale di cui al Dpr 633/1972, articolo 18, dovendosi tale norma ritenere abrogata per effetto dell'entrata in vigore della legge 426/1975; né al cedente o al prestatore di servizio può riconoscersi l'esercizio del privilegio generale spettante allo Stato in via di surrogazione a norma dell'articolo 1203 cc, tenuto conto che egli, nell'assolvere il debito Iva, esegue un'obbligazione propria e non del cessionario o del committente. La sussistenza del privilegio speciale dipende dall'accertata esistenza in concreto del bene ceduto nel patrimonio del debitore, nel senso che, solo nel caso in cui detto accertamento dia esito negativo, il credito privilegiato degrada in chirografario (Cassazione, sentenza 8683/2013).
 
Rivalsa dell’Iva nelle procedure concorsuali
Esiste un costante e risalente orientamento della Corte di cassazione che esclude il carattere prededucibile del credito per rivalsa Iva del professionista, il quale abbia prestato la sua opera in favore dell'imprenditore successivamente dichiarato fallito. Secondo tale orientamento:
a) il credito di rivalsa Iva di un professionista che, eseguite prestazioni a favore di imprenditore poi dichiarato fallito, emetta la fattura per il relativo compenso in costanza di fallimento (nella specie, a seguito del pagamento del compenso ricevuto in esecuzione di un riparto parziale), non è qualificabile come credito di massa, da soddisfare in prededuzione. Sul piano civilistico, la prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento resta l'evento generatore del credito di rivalsa Iva, autonomo rispetto al credito per la prestazione, ma a questo soggettivamente e funzionalmente connesso
b) conseguentemente, il diritto di rivalsa non è riconducibile nel novero delle spese e dei debiti contratti per l'amministrazione della procedura fallimentare e per la continuazione dell'esercizio dell'impresa, ove autorizzato, perchè esso non è sorto nel corso della procedura fallimentare per effetto del pagamento effettuato dal curatore in esecuzione del piano di riparto e della corrispondente emissione della fattura da parte del professionista, tenuto conto che, ai fini dell'individuazione dei debiti di massa, non è determinante il profilo temporale, bensì quello funzionale, cioè la genesi del debito per atto degli organi fallimentari - e non di un terzo creditore - in occasione e per le finalità della procedura
c) lo stesso credito di rivalsa Iva può giovarsi soltanto del privilegio speciale di cui all'articolo 2758 cc, comma 2 (nel testo sostituito dalla legge 426/1975, articolo 5), nel caso in cui sussistano beni - che il creditore ha l'onere di indicare in sede di domanda di ammissione al passivo - sui quali esercitare la causa di prelazione
d) nell'ipotesi in cui tale credito non trovi utile collocazione in sede di riparto, non è configurabile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell'articolo 2041 cc, in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento mediante la detrazione dell'Iva indicata nella fattura, poichè tale situazione è conseguenza del sistema normativo concorsuale, tenuto conto che, per i prestatori di servizi, anche professionali, l'emissione della fattura all'atto della percezione del compenso è una facoltà alternativa all'immediata fatturazione, con registrazione della relativa Iva a debito - nel qual caso nessun dubbio si pone sul carattere concorsuale del credito di rivalsa -, e che il simmetrico vantaggio e pregiudizio ingiusto che tale sistema di contabilizzazione dell'Iva può, ma non necessariamente, determinare rispettivamente nei riguardi del fallimento e del professionista attengono a situazioni fattuali, insuscettibili di modificare la natura giuridica del fenomeno (Cassazione, sentenze 3582/2011, 15690/2008, 10799/1998, 6149, 1227 e 1115 del 1995, 5429/1994).
 
Frequentemente l’esercizio della rivalsa Iva può coinvolgere un soggetto terzo diverso dal cessionario o committente. Si pensi alle spese di lite ovvero alla parte soccombente in giudizio condannata al pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa.
Secondo la consolidata giurisprudenza di Cassazione, la sentenza di condanna al pagamento delle spese di lite, liquidandone l'ammontare, costituisce titolo esecutivo, pur in difetto di un'espressa domanda e di una specifica pronuncia, anche per conseguire il rimborso dell'Iva che la medesima parte vittoriosa assuma di aver versato al proprio difensore, in sede di rivalsa e secondo le prescrizioni del Dpr 633/1972, articolo 18, trattandosi di un onere accessorio che, in via generale, ai sensi dell'articolo 91 cpc, comma 1, consegue al pagamento degli onorari al difensore.
Tuttavia, la deducibilità di tale imposta potrebbe, eventualmente, rilevare solo in ambito esecutivo, con la conseguente possibilità, per la parte soccombente, di esercitare la facoltà di contestare sul punto il titolo esecutivo con opposizione a precetto o all'esecuzione, al fine di far valere eventuali circostanze che, secondo le previsioni del Dpr 633/1972, possano escludere, nei singoli casi, la concreta rivalsa o, comunque, l'esigibilità dell'Iva.
Pertanto, l'eventualità che la parte vittoriosa possa portare in detrazione l'Iva dovuta al suo difensore non ha alcuna incidenza sulla statuizione delle spese di lite eseguita in sede di giudizio di cognizione (Cassazione, sentenza 17197/2012). In tali casi, secondo l’orientamento della Corte di cassazione, il difensore deve addebitare l'Iva al proprio cliente, al quale deve fornire il documento contabile emesso per il pagamento del suo compenso (Cassazione 7551/2011, preceduta dalle conformi 877/2007, 7805 e 7806 del 2010).
 
Rapporto tra esercizio della rivalsa Iva e fatturazione operazioni inesistenti
Con riguardo al rapporto tra esercizio della rivalsa Iva e fatturazione per operazioni inesistenti, l’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972 dispone che l'imposta stessa è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura. Ciò, in quanto, il corrispondente tributo viene considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione "isolata" da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate senza che possa operare, per tale fatto, il meccanismo di compensazione, tra Iva "a valle" e Iva "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'articolo 19 del Dpr citato (Cassazione, 19411, 11396 e 1289 del 2015, 26865/2014). In base al predetto orientamento, la fattispecie individuata dal Dpr 633/1972, articolo 21, comma 7, è del tutto speciale ed esula dalla applicazione del regime ordinario dell'Iva.
 
Il legislatore nazionale, in caso di "operazione inesistente", ha inteso privilegiare la rappresentazione cartolare del rapporto (i dati indicati in fattura) rispetto alla effettiva irrealtà della operazione sottostante, assoggettando comunque a imposizione detto rapporto (fictio iuris), ma tale previsione normativa opera soltanto dal lato del debito d'imposta gravante sull'emittente, quale soggetto passivo nei confronti dell'Erario; mentre, dal lato del cessionario/destinatario della prestazione di servizi, in difetto di alcuna disciplina normativa speciale, rimane confermato il meccanismo ordinario dell'Iva, per cui, in difetto di verificazione del presupposto impositivo (attesa la inesistenza di una reale cessione di beni/prestazioni di servizi in cambio di corrispettivo), alcun diritto alla detrazione/rimborso può sorgere dall'utilizzo di una fattura passiva che è stata emessa per una operazione che in realtà non esiste (Cassazione 25997 e 1565 del 2014, 7672/2012, 23074/2012).
 
Secondo la Corte di cassazione, anche l’ipotesi di "sovrafatturazione" (fenomeno che riguarda una operazione effettivamente esistente, ma non corrispondente alla rappresentazione della stessa riportata "in eccesso" nella fattura) è riconducibile all’ambito di applicazione dell’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972. Il legislatore ha, tuttavia, avuto bene presente che l’operazione economica "sovrafatturata" è comunque vera e reale, ed è quindi suscettibile di integrare il presupposto impositivo dell'Iva, prevedendo espressamente l'ipotesi della riemersione del fenomeno economico reale, ai fini della regolare applicazione del regime impositivo, ma soltanto nel caso in cui venga previamente ripristinata dalle parti la corrispondenza tra il dato reale e quello rappresentato nel documento fiscale (e nei registri contabili) mediante il meccanismo della nota di variazione ai sensi dell’articolo 26 del Dpr 633/1972 (Cassazione 1289/2015).
 
 
2 – continua.
La prima puntata è stata pubblicata martedì 3 maggio
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