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Analisi e commenti

Studi di settore, termometro dell'antieconomicità

L'idoneità dello strumento a far emergere situazioni di illogica gestione, sintomo di evasione

Accade spesso che gli accertamenti da studio di settore vengono impugnati in Commissione tributaria, eccependone l'illegittimità per difetto di motivazione. Senza voler entrare nella già tanto dibattuta questione se la presunzione dello strumento sia o meno sufficiente a sorreggere l'accertamento, può essere opportuna qualche considerazione relativa al caso in cui il non adeguamento agli studi di settore si inserisca in un contesto di antieconomicità della gestione imprenditoriale. In tali ipotesi, infatti, la questione non riguarderà la motivazione dell'accertamento, ma la prova in giudizio. E l'onere della prova spetta al contribuente.

Facciamo un esempio.
Dall'esame dello studio di settore presentato e dall'attività istruttoria svolta dall'ufficio emerge che la società, già da diversi anni, ha conseguito un risultato di esercizio caratterizzato da una perdita da conto economico, o da un utile bassissimo, e da una perdita fiscale.
La società, inoltre, negli anni passati, non è risultata mai congrua e lo scostamento è stato anche rilevante.

Nel contraddittorio, la società motiva solo genericamente le cause dello scostamento dei ricavi dichiarati con quelli dello studio di settore, eccependo, infatti, che:
  • è dotata di una struttura produttiva fortemente immobilizzata, sia sul lato del personale che sul lato dei beni strumentali, difficilmente modificabile, anche a seguito dell'avvento della crisi del settore
  • sono stati praticati sconti per trattenere i clienti più importanti e, nonostante ciò, sono andate perdute quote di mercato
  • il cluster di riferimento non è rappresentativo dell'attività svolta
  • il costo del venduto si è sensibilmente ridotto nell'anno di riferimento e così anche i ricavi, attestandosi il rapporto ricavi/costo del venduto su margini estremamente bassi, di sicuro non sufficientemente remunerativi e lontani dal conseguimento di un margine lordo sulle vendite, tale da soddisfare l'indice richiesto dallo studio di settore.

Dalla stessa linea difensiva del contribuente emerge, perciò, una gestione antieconomica dell'impresa, difficilmente giustificabile.
Rientra pertanto nell'id quod plerumque accidit ritenere che, alla luce di tali elementi, avendo la stessa società operato costantemente in condizioni di antieconomicità, tale condizione, probabilmente, non avrebbe potuto protrarsi a lungo senza attingere a risorse finanziarie non dichiarate.

In un contesto di antieconomicità, quale quello sopra ipotizzato, lo strumento "studio di settore" si limita, dunque, a far emergere, solo con maggiore evidenza, la situazione di illogica e, come detto, antieconomica gestione, che legittima la motivazione su cui si fonda la ripresa a tassazione da parte dell'ufficio.

Le contestazioni dei contribuenti che sostengono l'illegittimità dell'avviso per difetto di motivazione sono, in casi come quello sopra ipotizzato, errate.
In contenzioso, allora, la questione non potrà riguardare la sufficienza o l'idoneità della motivazione dell'accertamento e, di conseguenza, la sua legittimità, ma, semmai, la sufficienza o l'idoneità della prova dei fatti contestati e, in particolare, del confronto comparativo, nel merito, con le prove contrarie addotte dal ricorrente.

In sede di accertamento, infatti, affinché lo stesso sia legittimo, non deve essere fornita la prova della pretesa fiscale, ma semplicemente la sua motivazione.
In quella sede, vista la funzione dell'avviso di mera provocatio ad opponendum, è sufficiente che tale motivazione sia adeguata. E in un caso come quello sopra ipotizzato non c'è dubbio che la motivazione sia adeguata.

E', del resto, la stessa Cassazione a chiarire, espressamente, con la sentenza 24436/2008, che l'Amministrazione finanziaria può ricorrere alla determinazione induttiva del reddito imponibile, anche fuori dai casi previsti dall'articolo 39, Dpr 600/1973, laddove sia riscontrabile una grave e ingiustificabile incongruenza fra i componenti positivi dichiarati e quelli desumibili dall'attività svolta o dagli studi di settore, "anche alla luce di una sequenza di esercizi nei quali si registrano come risultati costanti perdite".

Peraltro, lo stesso articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, dispone che, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, è consentito procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi (ed è legittimo, dunque, l'accertamento sotto il profilo della motivazione), senza riscontro analitico della documentazione, secondo il metodo cosiddetto induttivo, "purché l'accertamento in rettifica risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall'art. 2729 cod. civ. e desunte da dati di comune esperienza, oltre che da concreti e significativi elementi offerti dalle singole fattispecie e la circostanza che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell'imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare da parte dell'erario una rettifica della dichiarazione …" (cfr citata sentenza 24436/2008).

E' ancora la Suprema corte a concludere che "nella fattispecie in esame, tale anomalia è significativa ed ulteriormente aggravata dal fatto che, malgrado i risultati negativi ottenuti per cinque anni, per come risultano dalla contabilità esaminata e disattesa prima dai verificatori e poi dall'Ufficio, la società avrebbe insistito nella stessa attività, come rilevato in sentenza in palese contrasto con i principi di ragionevolezza, anche sotto il profilo dell'antieconomicità del comportamento della contribuente …".

Se poi tali circostanze siano sufficienti anche a confermare la pretesa in giudizio dovrà deciderlo il giudice, sulla base di un confronto di (maggiore) verosimiglianza probatoria, a seconda degli specifici elementi prodotti in giudizio.

L'irragionevolezza e antieconomicità nella gestione imprenditoriale, confermata dalle risultanze dello studio di settore e sorretta da elementi di fatto non contestabili, è comunque idonea a consentire la ripresa a tassazione di maggiori ricavi. E non si tratta solo di una questione di "disappunto" in merito a scelte di natura imprenditoriale.
All'Amministrazione non importa, infatti, criticare le capacità imprenditoriali degli amministratori della società, ma solo evidenziare come, nella maggior parte dei casi (il citato id quod plerumque accidit), tale antieconomicità e irragionevolezza imprenditoriale possa essere "sintomo" di evasione.

Del resto, come anche riconosciuto da giurisprudenza costante, si deve rilevare che nella prova per presunzioni la relazione tra fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l'esistenza di quest'ultimo derivi dal primo come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità (Cassazione, sentenze 4976/1995, 9265/1995, 9042/1997; Ctc, sentenza 5235/1997).

Come già affermato dalla Suprema corte (sentenza 1821/2001), dunque, in casi di antieconomicità dell'operazione, il giudice di merito, per poter annullare l'accertamento, deve specificare con argomenti validi le ragioni per le quali ritiene che l'antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie (cfr anche Cassazione, sentenza 10649/2001).

A prescindere da tutta la diatriba in ordine al valore probatorio presuntivo degli studi di settore, in questi casi, l'onere della prova in ordine al perché di scelte che non sono in linea con i criteri di gestione economica dell'attività è senz'altro a carico del contribuente (vedi anche Cassazione, sentenza 1821/2001).

Altro discorso è quello, poi, legato al fatto che, magari, tale antieconomicità deriva soltanto da un'effettiva incapacità della singola azienda ad affrontare la crisi.
Ma la prova andrà fornita caso per caso.

Come espressamente riconosciuto anche nel documento della Commissione di esperti deputata al confronto tra categorie e Amministrazione finanziaria sulla gestione degli studi di settore, rilasciato il 6 novembre scorso, "il contesto di "normalità" al quale si riferiscono i risultati degli studi, va infatti sempre adeguato al tempo, al luogo ed al soggetto in esame e non vi è dubbio alcuno che nel 2008 il "tempo" è quello della crisi oggi in atto".

Preso, dunque, atto che, per quanto riguarda il fattore tempo, la crisi c'è, andrà anche dimostrato, appunto caso per caso, che il risultato dello studio non è adeguato al luogo e al soggetto.
Laddove tale dimostrazione venga fornita, l'antieconomicità della gestione non sarà più una prova (seppur solo presuntiva) a favore dell'Amministrazione, ma solo una conseguenza (e conferma) di quella situazione di non adeguatezza, che, però, come detto, deve essere dimostrata con specifici argomenti e non con mere affermazioni di principio.

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