L’articolo 36, comma 34-bis, del Dl “Visco-Bersani” (223/2006), ha stabilito che "in deroga all'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell'articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi".
Tale modifica legislativa ha, almeno potenzialmente, un effetto molto rilevante ai fini del contrasto all’evasione fiscale e conclude un iter normativo incominciato, appunto, con il citato articolo 14 della legge 537/93, sull’onda dell’evento Tangentopoli.
Nell’ambito della vicenda riconducibile a Tangentopoli era risultato evidente che l’apprestamento di provviste illecite costituiva una realtà ordinaria per molte imprese, che avevano finito per istituzionalizzare il ricorso a fondi neri di provenienza illegale.
Il più delle volte, del resto, tale provenienza illecita era costituita da fenomeni di evasione fiscale.
Per questo motivo, fenomeni di corruzione ed evasione fiscale sono due aspetti intimamente correlati, due facce della stessa medaglia.
Le inchieste giudiziarie hanno spesso mostrato come malaffare politico-amministrativo e frodi e criminalità economica siano intimamente connesse.
A ogni modo, è indubbio che le tangenti hanno, ontologicamente, fonte illecita e, non di rado, originano proprio da illeciti fiscali. D’altra, parte l’evasione fiscale riguarda anche la non tassazione dei redditi illeciti (illecitamente) percepiti dai destinatari delle tangenti.
Quindi, evasione a monte (nel costituirsi fondi neri) ed evasione a valle (nello sfuggire definitivo di tali somme all’Erario).
Ratio della tassazione dei proventi illeciti
Al di là e oltre il caso specifico della tassazione dei redditi da prostituzione e di tutte le altre attività illecite, comunque fonte di guadagni non tassati (basti pensare anche all’abusivismo commerciale, allo spaccio di droga eccetera), gli illeciti fiscali costituiscono la necessaria premessa per poter realizzare successivi, ulteriori, reati, costituendo, in sostanza, la fonte di alimentazione degli stessi illeciti. Ad esempio, tramite:
- la costituzione dei fondi neri, alimentati con ricavi, ovviamente non contabilizzati
- la fatturazione di operazioni, in tutto o in parte, inesistenti
- le operazioni estero su estero, in cui la provvista finanziaria per il pagamento della tangente viene creata mediante operazioni “infragruppo”.
Tali proventi non tassati potranno poi essere utilizzati per commettere e realizzare reati.
Le tangenti corrisposte dai “corruttori” ai “corrotti” o, anche, dai “concussi” ai “concussori”, quasi sempre, hanno esse stesse fonte illecita.
Conseguentemente, proprio per esempio nel caso della tangente, si porrà il problema del trattamento tributario:
- sia della vera e propria “tangente” (fonte di guadagno illecito, non tassato, per colui che la percepisce, il corrotto)
- sia dei proventi utilizzati da parte del corruttore per il pagamento della tangente.
Con l’inchiesta giudiziaria Mani pulite, il tema della disciplina tributaria dei proventi da attività illecite diventa, quindi, un argomento in grado di stimolare l'attenzione sia della giurisprudenza sia del legislatore, che, infatti, già con la manovra finanziaria per il 1994, statuì, all'articolo 14, comma 4, della legge 537/1993 (oggi, come detto, modificato come sopra indicato) che "nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria".
Peraltro, l’Amministrazione finanziaria, già nel 1994, con la circolare 150/E, commentando la norma, sottolineò l'efficacia retroattiva della disposizione introdotta nel 1993, perché espressiva di principi (fondamentalmente etici) già insiti nell'ordinamento.
Tesi della dottrina: posizione giuridica e posizione economica
La dottrina, da parte sua, si attestò su due distinte posizioni:
- l'una, per così dire, a carattere “giuridico”, contraria all'imponibilità dei proventi illeciti
- l'altra, per così dire, a carattere “economico”, tendente, invece, ad ammetterla.
Secondo la prima tesi, i proventi derivanti da attività illecite penalmente rilevanti non sono affatto suscettibili di imposizione tributaria, dato che l'attività illecita non può essere considerata presupposto di imposta, costituendo il risultato ottenuto pretium sceleris e non reddito, tecnicamente e giuridicamente inteso; diversamente, secondo tale tesi, si perverrebbe all'assurda conseguenza di chiedere all'autore dell'illecito di denunciare al Fisco i relativi proventi, con ciò finendo in sostanza con l'autodenunciarsi (in aperta violazione del noto principio nemo tenetur se detegere).
A sostegno, invece, della tesi della tassabilità starebbe la considerazione che presupposto dell'imposizione è soltanto il possesso di un reddito (concezione cosiddetta “economica”), indipendentemente dalla sua provenienza.
In altre parole, l'eventuale illiceità, sotto il profilo giuridico, dell'attività produttiva non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico; chi trae proventi dall'attività illecita realizza infatti, comunque, una ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo.
Secondo tale posizione, inoltre, la soluzione della non imponibilità dei proventi derivanti da attività illecite determinerebbe anche una grave discriminazione tra i cittadini-contribuenti, in contrasto con i principi di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione; discriminando, per assurdo, proprio tra “onesti” e “disonesti”.
La Corte di cassazione (n. 9405/1992, non a caso definita come “sentenza monito”), ancor prima della novella legislativa, stabilì, del resto, proprio a tal proposito, che "il principio dell'intassabilità dei proventi da illecito meriterebbe, probabilmente, una rimeditazione, giacché la capacità economica di sopportare le spese pubbliche va intesa non come protezione sociale per l'attività svolta, ma come capacità economica, quale attitudine a sostenere decurtazione di ricchezza comunque ottenuta, rilevabile tramite indici specifici di tale capacità".
La giurisprudenza di merito e l’onere probatorio
Fin qui i principi.
Ma che fine fanno poi davvero, in contenzioso, le ingenti somme, mezzo e frutto di tali operazioni illecite, riprese a tassazione dall’Amministrazione finanziaria?
Nel caso specifico dei redditi da prostituzione sembra che la giurisprudenza di merito stia accogliendo le tesi dell’Agenzia.
Sul fronte invece della perseguibilità generale dei proventi illeciti da reato non sembra che vi siano pronunce di rilievo.
Giova, del resto, a tal proposito, ricordare, per far comprendere le problematiche sottese al contrasto effettivo di tali tipi di recuperi, una delle prime sentenze che ebbe modo di affrontare gli effetti tributari di Tangentopoli.
Con la sentenza 261/1995, la Ctp di Milano stabilì infatti che "poiché l'ufficio deve provare i fatti e le circostanze indicati nella motivazione dell'avviso di accertamento nonché gli elementi utilizzati per la quantificazione dell'obbligazione tributaria, è illegittimo l'accertamento fondato esclusivamente su dichiarazioni rese nell'ambito della c.d. inchiesta di tangentopoli".
La non ammissibilità delle dichiarazioni testimoniali nel processo tributario, la conclusione di molti dei procedimenti penali instaurati con sentenze di assoluzione o, comunque, anche per prescrizione dei reati, costituiscono quindi, senza dubbio, fattori che potrebbero non garantire la effettiva percezione delle imposte dovute da parte dell’Erario (e quindi della collettività).
L’Ufficio distrettuale delle Imposte dirette di Milano, nell’occasione della vicenda trattata dalla citata Commissione tributaria, aveva, infatti, notificato un avviso di accertamento contro cui il soggetto accertato aveva proposto ricorso eccependo l'illegittimità dell'atto, per mancanza di prove della sussistenza del fatto imponibile.
L'avviso di accertamento era scaturito proprio da un'indagine nell'ambito dell'inchiesta “Mani pulite”, dalla quale era risultato che il ricorrente aveva ricevuto una tangente di 100 milioni di lire.
L'ufficio aveva, dunque, emesso un accertamento con una rettifica reddituale “per tangenti”, di 318.230.000 lire (anziché di 100 milioni).
L'Amministrazione finanziaria fondava, in particolare, la propria pretesa sulla base di alcune testimonianze assunte nel processo penale.
Il ricorrente ricordava, però, che dal verbale del suo interrogatorio si evincevano fatti contrastanti rispetto a quelli considerati dall'Amministrazione, che avrebbe, quindi, dovuto provvedere con verifiche, ispezioni e indagini bancarie a provare il proprio assunto.
La Commissione tributaria, accogliendo il ricorso del contribuente, osservava che anche nel processo tributario l'ufficio ha l'onere di provare, come qualsiasi creditore, i fatti che danno fondamento alla propria pretesa creditoria; infatti, anche nel processo tributario si applica il principio sancito dall'articolo 2697, comma primo, Codice civile, secondo cui "chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento".
Da evidenziare, del resto, che la circolare dell'agenzia delle Entrate 42/E/2005, forse consapevole delle problematiche probatorie relative a tali fattispecie di recupero, ha sottolineato come, al sopraggiungere di una sentenza definitiva di proscioglimento o di assoluzione dell'interessato, su richiesta di quest'ultimo o nell'esercizio dei poteri di autotutela, l'Amministrazione possa disporre, per la parte interessata, l'annullamento degli atti di accertamento già compiuti e il rimborso delle maggiori imposte eventualmente versate dal contribuente.
La giurisprudenza di legittimità e l’estensione ai fini Iva
Per fortuna, però, la Cassazione ha recentemente dato un fondamentale contributo alla corretta applicazione della norma, andando, anzi, anche oltre la possibilità di recupero dei redditi ai fini delle imposte dirette e affermando la necessità di recuperare anche la correlata Iva.
Con la sentenza 24471/2006 è stato, infatti, “appoggiata” la posizione dell'Amministrazione, secondo cui, in forza dell'articolo 14, comma 4, della legge 537/1993, le attività illecite sono soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all'Iva.
Secondo la Corte, infatti, in ogni caso l'attività illecita deve essere soggetta all'Iva in base ai principi dell'ordinamento comunitario, a cui l'Italia non può sottrarsi, secondo i quali (vedi Corte di giustizia della Comunità europea, causa C-283/95 dell'11giugno 1998), se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente e illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite e illecite.
Analoghe considerazioni sono desumibili inoltre dalla sentenza di legittimità 3550/2002, secondo cui "sono assoggettabili anche ad Iva, in forza del principio stabilito dall'art. 14, comma 4 della L. 24 dicembre 1993, n. 537, i proventi derivanti da attività illecita…l'affermazione di principio secondo la quale i proventi provenienti da attività illecita non sarebbero assoggettabili ad imposta è manifestamente errata. Essa contrasta con il preciso disposto dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, secondo il quale "i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo", devono intendersi ricompresi nelle categorie di reddito di cui all'art. 6 del Tuir. Anche se la norma è riferita alla disciplina delle imposte sul reddito, è inequivocabilmente una norma di principio, in forza della quale non si può eccepire la esenzione tributaria per i proventi derivanti da attività illecite".
Alla luce, dunque, dell'insegnamento costante della Suprema corte (vedi anche le sentenze 16504/2006, 21746/2005 e 13335/2003), l’articolo 14 citato rappresenta una norma di principio generale del nostro ordinamento, un criterio ermeneutico sistematico, valido sia ai fini delle imposte dirette che ai fini Iva.