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Attualità

Alle fondazioni bancarie l'onere della prova

Per ottenere le agevolazioni fiscali devono dimostrare la loro natura non imprenditoriale

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Con la circolare n. 69/E del 17 dicembre, l'agenzia delle Entrate ha definito l'indirizzo per la gestione delle controversie pendenti in materia di inapplicabilità alle fondazioni bancarie della riduzione a metà dell'aliquota Ires (precedentemente, Irpeg) prevista dall'articolo 6 del Dpr 601/1973 e dell'esonero dalla ritenuta sugli utili societari, di cui all'articolo 10-bis della legge 1745/1962.
Le direttive si uniformano ai criteri interpretativi forniti dalla Corte di giustizia europea con la sentenza del 10 gennaio 2006 e dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza 27619/2006, sulla cui base sono poi stati definiti, in senso favorevole all'Amministrazione finanziaria, numerosi giudizi pendenti in materia.

Alla luce dell'orientamento manifestato dalla giurisprudenza di legittimità, per la spettanza dei benefici fiscali in questione, ciascuna fondazione bancaria ha l'onere di provare in giudizio, secondo le regole proprie del processo tributario, non solo il possesso dei requisiti previsti dalle norme agevolative nazionali, ma anche la natura non imprenditoriale dell'attività svolta, secondo la nozione invalsa nella disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato.
In sostanza, quindi, ai fini del regime agevolativo fiscale, assume particolare rilevanza l'effettiva natura delle fondazioni bancarie, le quali rappresentano una particolare categoria di soggetti, istituita dalla "legge Amato" (la n. 218 del 1990) nell'ambito della riforma delle casse di risparmio e degli altri enti pubblici creditizi.

La peculiarità di questi soggetti risiede in ciò: essi, pur perseguendo i fini - tradizionali delle casse di risparmio - di utilità sociale, hanno come attività principale quella di gestire il pacchetto azionario di società bancarie. Più precisamente, nell'ambito del riordino operato dalla legge Amato, dalle originarie casse di risparmio sono state scorporate le aziende bancarie e conferite a società "conferitarie", mentre agli "enti conferitari", comunemente denominati fondazioni bancarie, è stata istituzionalmente attribuita la titolarità e l'amministrazione delle partecipazioni nelle società conferitarie.
Proprio l'attività di gestione delle partecipazioni in imprese bancarie aveva spinto l'Amministrazione finanziaria a negare la riconducibilità delle fondazioni bancarie in una delle categorie di beneficiari espressamente indicate dall'articolo 6 del Dpr 601/1973 e dall'articolo 10-bis della legge 1745/1962 (cfr. circolare 238/1996, che tiene conto del parere del Consiglio di Stato 103/1995; risoluzione 145/2001).

Con la circolare 69/2007, l'Agenzia delle entrate, allineandosi con le precedenti istruzioni, precisa ulteriormente i limiti entro cui può essere riconosciuta la spettanza dei regimi agevolativi in esame.
Va evidenziato che le direttive riguardano il contenzioso sorto relativamente ai periodi d'imposta 1990-1999, per i quali era applicabile la legge Amato. Infatti, successivamente, la disciplina ha subìto sostanziali modifiche, anche per effetto dell'articolo 12, comma 2, del Dlgs 153/1999, che ha ammesso le fondazioni bancarie, in presenza di specifici presupposti, al beneficio della riduzione a metà dell'aliquota Irpeg (quest'ultima previsione è venuta meno a seguito dell'abrogazione disposta dall'articolo 2, comma 4, lettera a), del Dl 168/2004, convertito, con modificazioni, dalla legge 191/2004).

Come già sopra sottolineato, la soluzione offerta alla problematica in esame va individuata nell'onere per la fondazione bancaria di fornire in giudizio la prova della spettanza dell'agevolazione richiesta. In particolare, la prova deve avere a oggetto le seguenti circostanze:

  1. che esista nello statuto una previsione in base alla quale possano dirsi soddisfatti i requisiti tassativamente indicati dalle norme agevolative di cui si invoca l'applicazione (requisito formale)
  2. che l'attività in concreto esercitata dalla fondazione corrisponda a quella individuata dalle disposizioni legislative e statutarie (requisito sostanziale)
  3. che la fondazione non abbia natura imprenditoriale. La nozione di "impresa" alla quale occorre rifarsi è quella elaborata, ai fini del diritto comunitario in tema di concorrenza, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che si estende fino a ricomprendere "qualsiasi ente che eserciti un'attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento ... Costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato" (cfr. sentenza della Corte di giustizia del 10 gennaio 2006). Mutuando anche i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si deve ritenere che "la detenzione di partecipazioni, quando si traduce in un vero e proprio controllo, dà luogo ad esercizio di impresa e ad assoggettamento a procedura concorsuale (cosiddetta holding individuale)". Pertanto, come peraltro sottolineato dalle Sezioni unite, sulla fondazione bancaria grava l'onere di provare l'inesistenza di qualunque influenza, anche indiretta, sulla gestione dell'impresa bancaria (o di altre imprese di cui la fondazione abbia acquistato partecipazioni); a tal fine, assume particolare rilevanza l'eventuale partecipazione della fondazione - azionista maggioritario o non maggioritario della società che esercita l'impresa bancaria - ad accordi parasociali e specialmente a patti di sindacato sull'esercizio del diritto di voto. In definitiva, ai fini di escludere la natura imprenditoriale delle fondazioni bancarie, non sarebbe sufficiente provare l'assenza del fine di lucro oppure la circostanza di avere utilizzato i proventi dell'attività economica per il raggiungimento di scopi di utilità sociale.

Nella circolare si richiamano, infine, i principi generali in tema di assolvimento dell'onere della prova. Si ribadisce, infatti, che le questioni non esposte nel ricorso introduttivo del giudizio non possono essere introdotte mediante una memoria successiva (ai sensi dell'articolo 24, comma 2, del Dlgs 546/1992) e che le questioni non dedotte nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, se proposte nel grado successivo, costituiscono domanda nuova, improponibile nel giudizio d'appello (ai sensi dell'articolo 57, Dlgs 546/1992).

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