Il nodo della prova testimoniale nel processo tributario
Nel capo I del Dlgs 31 dicembre 1992, n. 546, è posto l'articolo 7, sui poteri delle commissioni tributarie.
La collocazione di tale articolo, che regolamenta non solo i poteri conferiti al giudice tributario, ma anche l'utilizzo di alcuni mezzi probatori, in fase istruttoria, appare, forse, non del tutto appropriata, perché estranea al corpo normativo che regola direttamente il processo tributario.
Il punto su cui focalizzeremo la nostra attenzione è il quarto comma, nel quale viene specificato il divieto ad ammettere nel processo tributario il giuramento e la prova testimoniale; la presente trattazione verterà in specie sull'inammissibilità di questa ultima.
Tale regola, mutuata dall'articolo 35, quinto comma, del Dpr 26 ottobre 1972, n. 636, appare coerente con la tradizione e la storia del giudizio tributario (in un primo tempo, pressoché, esclusivamente riconducibile a un procedimento di annullamento, piuttosto che a un procedimento di cognizione) e con le ragioni di economia e di speditezza che informano il processo tributario.
In effetti, anche, la Corte costituzionale, chiamata da più di un'ordinanza a pronunciarsi sulla legittimità del divieto di testimonianza, ha avallato la scelta del legislatore.
Nella miliare sentenza n. 18 del 21/01/2000, si è affermato come non esiste affatto un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità delle regole processuali tra i diversi tipi di processo, ben potendosi avere differenziazioni sulla base delle scelte razionali del legislatore, derivanti dalla configurazione dei processi e dalle situazioni dedotte in giudizio.... e anche in relazione all'epoca della disciplina e alla tradizione storica di ciascun procedimento.
Il processo tributario è ancora, in massima parte, scritto e documentale; tale situazione è, però, giustificata dalla "spiccata specificità del processo tributario... correlata sia alla configurazione dell'organo decidente, sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio".
Ricorda, ancora, la citata sentenza, come, anche sul piano logico, la scelta operata dal legislatore appaia corretta e, a riprova di quanto assunto, riferisce di come l'utilizzo della testimonianza anche prima dell'introduzione del relativo divieto nel processo tributario sia stato del tutto marginale.
Prima ancora, però, di analizzare a fondo l'aspetto relativo al precetto di divieto posto dalla norma, sarebbe opportuno approfondire la conoscenza del mezzo probatorio testimoniale, vale a dire dell'oggetto stesso della disposizione.
Cosa s'intende per prova testimoniale?
La prova testimoniale è un tipico mezzo di prova del processo di cognizione, regolato, in dettaglio, dagli articoli compresi tra il 244 e il 257 del codice di procedura civile.
Tale mezzo di prova è quindi esclusivamente processuale.
I testi vanno dedotti dalle rispettive parti, con indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuno di loro deve essere interrogato. Il giudice passa, quindi, al vaglio le liste proposte eliminando i testimoni che non possono essere sentiti per legge (ex articolo 246 c.p.c. le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio) e ammette i testi da interrogare con ordinanza. Vi è, quindi, un'intimazione a cui provvede l'ufficiale giudiziario, su richiesta delle parti interessate, a comparire nel luogo, nel giorno e nell'ora fissati avanti al giudice deputato ad assumere la prova. Nell'udienza, che si tiene di fronte al giudice, il teste presta giuramento, dopo che questo lo ha ammonito sia dell'importanza morale, sia delle conseguenze penali, in cui lo stesso può incorrere per eventuali dichiarazioni false o reticenti (è bene ricordare come, in tali casi, la denuncia immediata effettuata dal giudice istruttore al Pm sia un atto dovuto ex articolo 256 c.p.c.).
In seguito all'identificazione del testimone e a un'ulteriore indagine circa eventuali interessi nella causa di quest'ultimo, il giudice interroga il teste, che risponde personalmente, senza servirsi di scritti già predisposti (salvo particolari ed eccezionali casi), su domande che devono vertere esclusivamente su fatti, senza la possibilità di chiedere giudizi e opinioni non oggettivi; inoltre, il giudice può, motu proprio o su istanza di parte, porre tutte le domande che ritiene utili a meglio chiarire gli avvenimenti.
Dopo aver delineato il mezzo probatorio e la disciplina che lo caratterizza possiamo, quindi, meglio affrontare la risoluzione di alcune problematiche.
Le dichiarazioni rilasciate da terzi a organi verificatori (Guardia di Finanza e funzionari dell'Agenzia delle Entrate) o a organi ispettivi (ispettori del Lavoro e ispettori Inps) non sono sicuramente rientranti nel genus della testimonianza.
Tali dichiarazioni, rese avanti a organi verificatori o ispettivi, contenute in processi verbali, che hanno natura di atti pubblici, faranno fede, fino a querela di falso, ex articolo 2700 codice civile, dell'identificazione del soggetto dichiarante e dell'autenticità delle dichiarazioni rilasciate e non anche solitamente della veridicità relativa al contenuto, dato che, quasi sempre, le stesse si riferiscono a "fatti" ormai passati, che non si consumano alla presenza dei verificatori.
Le dichiarazioni possono essere assunte, ma solo quali elementi indiziari; soltanto la testimonianza resa in modo orale, avanti al giudice, nel rispetto dei limiti previsti dalla disciplina e con le garanzie del contraddittorio, assurge alla piena dignità di prova.
La testimonianza, infatti, resa dopo l'ammonimento del giudice e soprattutto dopo aver prestato il giuramento di rito - disciplinato dall'articolo 251 c.p.c., che investe una responsabilità d'ordine giuridico, morale, e sociale - garantisce maggiormente la veridicità, anche del contenuto delle affermazioni rilasciate dal teste.
Per quanto sopra detto, appare difficile poter validamente sostenere le ragioni della pretesa tributaria unicamente sulla base di dichiarazioni rilasciate da terzi, senza che le stesse siano suffragate da ulteriori elementi probatori. (tra le altre, la sentenza della Ctp di Perugia n. 260/2002 e la sentenza Ctr della Lombardia n. 112/2002).
Già la Commissione tributaria centrale, ponendo l'attenzione sull'utilizzabilità in sede processuale delle dichiarazioni di terzi, si era espressa favorevolmente in diverse pronunce (ad esempio, decisione n. 4784/1997), dando però alle stesse, a causa della mancanza di contraddittorio, un valore indiziario.
In seguito, la Corte di cassazione, chiamata a giudicare sull'ammissibilità processuale delle dichiarazioni che gli organi dell'Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche a privati nella fase amministrativa di accertamento anche sul conto di un determinato contribuente (articolo 32, primo comma, n. 8, Dpr 600/73 e articolo 51, Dpr 633/72), ne ha ritenuto anch'essa legittima l'assunzione, considerandole, però, rilevanti solo come semplici elementi indiziari, proprio perché assunte in sede extraprocessuale (Cassazione sentenze n. 14427/1999 e n. 14774/2000).
La Corte costituzionale ha, infine, ribadito, tale orientamento nella famosa sentenza n. 18/2000, affermando che le dichiarazioni rilasciate da terzi (al di fuori dell'istituto della testimonianza non ammesso nel processo tributario) "possono concorrere a formare il convincimento del giudice, ma non sono idonee a costituire da sole il fondamento della decisione del giudice".
Sul punto, a fortiori, la Cassazione, nella sentenza n. 903/2002, ha messo in risalto la particolare valenza della prova testimoniale dovuta alla peculiarità procedurale e al modo di assunzione della stessa; ribadendo, invece, il semplice valore indiziario che hanno le dichiarazioni rese da terzi e raccolte dall'Amministrazione nella fase procedimentale, che devono, pertanto, essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi, ancora, la pronuncia n. 3526/2002 ha sentenziato che le dichiarazioni di terzi, raccolte dalla Polizia tributaria e inserite nel processo verbale di constatazione, non hanno natura di testimonianza, bensì di mere informazioni acquisite nell'ambito di indagini amministrative, sfornite, pertanto, ex se, di efficacia probatoria, con la conseguenza che esse risultano del tutto inidonee a fondare un'affermazione di responsabilità del contribuente, potendo soltanto fornire un ulteriore riscontro a quanto già accertato e provato aliunde in sede di procedimento tributario.
Nella giurisprudenza delle Commissioni tributarie regionali appaiono, in vero, delle pronunce ondivaghe rispetto all'orientamento segnato dalle supreme Corti; le sentenze, infatti, pur ammettendo, uniformemente, l'utilizzo delle dichiarazioni rilasciate da terzi, anche acquisite in processi verbali relativi ad altre verifiche, non tutte attribuiscono a tali riscontri, almeno apparentemente, lo stesso valore indiziario.
La Ctr del Lazio n. 12/2004, seguendo l'ortodossia giurisprudenziale, ha concluso così sintetizzando: "...la testimonianza perché si possa definire e qualificare come tale deve essere resa al giudice. Le dichiarazioni rese dai terzi, in forma scritta od orale, fuori dal processo non possono, quindi, essere considerate tecnicamente come testimonianze... è da evidenziare che l'art. 37, comma I del DPR 600/1973 consente agli Uffici, ai fini del controllo delle dichiarazioni dei contribuenti, l'utilizzazione "delle informazioni di cui siano, comunque, in possesso"... può, senza ombra di dubbi, dirsi che le dichiarazioni raccolte e verbalizzate nel corso d'indagine, proprio perché non aventi la valenza propria della prova testimoniale, possono, al di là naturalmente del buon uso che può averne fatto l'Ufficio, essere utilizzate in sede processuale come informazioni destinate, assieme alle altre risultanze ispettive, all'apprezzamento di fatti fiscalmente notevoli con prudente discernimento del giudice", possono, anche, soccorrere a quanto esposto nella pronuncia le previsioni normative specifiche sull'utilizzo delle risultanze contenute nei processi verbali di cui agli articoli 37, primo comma, 39, primo comma, lettere c e d, 41-bis, del Dpr 600/73 e all'articolo 54, commi II e V, del Dpr 633/72.
Sulla stessa linea, la sentenza n. 108/2003 della Ctr dell'Abruzzo, che ha qualificato indiziarie le dichiarazioni rese a ispettori del Lavoro e Inps perché acquisite senza un formale contraddittorio e senza che gli stessi organi, sottolinea ancora la Commissione, abbiano un potere di verifica fiscale.
La Ctr della Campania, con la sentenza n. 55/2004, ha invece ritenuto il principio contenuto nella sentenza della Corte costituzionale n. 18/2000, relativo alle dichiarazioni di terzi, "valido, quasi scontato, ma troppo generico ed astratto per essere applicato al caso in esame..." e ha pertanto dato validità e legittimazione a un accertamento che disattendeva un accordo (simulato) per lo sfruttamento d'immagine di un calciatore volto a mascherare redditi di lavoro dipendente sulla base delle dichiarazioni rese dai revisori contabili nell'ordinaria attività di certificazione.
La sentenza della Campania, però, per essere apprezzata al meglio, va ben intesa. Il valore sostanzialmente probatorio delle dichiarazioni dei revisori appare giustificato: a) dalla particolare capacità tecnica giuridico-fiscale dei revisori; b) dalla responsabilità che insiste per ogni affermazione rilasciata in sede di certificazione e attestazione da parte dei revisori ai sensi del Dlgs 58/1998; c) dalla circostanza che la società con cui era simulato il contratto per sfruttamento d'immagine, situata in un "paradiso fiscale", faceva capo alla stessa proprietà della società sportiva; d) dalla mancanza, da parte del contribuente, di una valida contrapposizione in antitesi alle tesi sostenute dall'Amministrazione finanziaria.
Vi sono poi diverse sentenze apparentemente non in linea, che ritengono validamente fondato l'accertamento sulla base delle sole dichiarazioni rilasciate da più soggetti nei processi verbali, redatti dagli organi verificatori della Guardia di Finanza o dell'Agenzia delle Entrate, nell'ambito di "controlli incrociati".
Tali decisioni sono, però, anch'esse da approfondire meglio; si può, infatti, ben sostenere che le dichiarazioni rese da più soggetti terzi, che operano nello stesso settore o che comunque abbiano intrattenuto rapporti economici giuridici, qualora siano concordi e circostanziate, possono costituire un complesso di presunzioni gravi, precise e concordanti ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, del Dpr 633/72 e dell'articolo 39, primo comma, del Dpr 600/73.
A tale conclusione, perviene, tra le altre, la sentenza n. 29/2004 della Ctr della Puglia, che, riprendendo anche quanto stabilito nella sentenza della Ctr della Sicilia n. 88/2002, "rammenta che le dichiarazioni raccolte dalla G.d.F. nei c.d. "controlli incrociati" vanno inquadrate come prove testimoniali, che vanno a costituire un complesso di presunzioni gravi, precise e concordanti e come tali valutabili ex art. 54, comma II del D.P.R. 633/1972".
Distonante e antitetica rispetto alla linea di prudente apprezzamento e sostanziale svalutazione delle dichiarazioni rese da terzi, appare la sentenza n. 88/2003 della Ctr della Sicilia, che giudica legittime le rettifiche fiscali eseguite, sulla base delle sole dichiarazioni testimoniali (che nella concreta fattispecie asserivano la insussistenza delle prestazioni effettuate in favore del verificato), qualora non vengano proposti elementi probanti contrari.
1 - continua. La seconda puntata su FISCOoggi di mercoledì 24
Assunzione di dichiarazioni di tipo testimoniale e confessorio: problematiche e soluzioni giurisdizionali (1)
Il nodo della prova testimoniale
