L’articolo 35, commi 13 e 14, del Dl 223/2006, ha previsto una presunzione legale relativa di localizzazione in Italia della residenza di società ed enti legalmente costituiti all’estero, al ricorrere di determinate condizioni. In particolare, il nuovo comma 5-bis dell’articolo 73 del Tuir “presume” l’esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono direttamente partecipazioni di controllo in società di capitali ed enti commerciali residenti, quando, alternativamente:
- sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del Codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato
- sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo di gestione equivalente, formato in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Qual è la ratio legis di tale novella legislativa? La circolare 28/E del 4 agosto 2006 prende le mosse dalla constatazione della pratica difficoltà – in taluni casi – di accertamento della localizzazione dell’oggetto principale e della sede dell’amministrazione, i quali “devono essere valutati in base ad elementi di effettività sostanziale e richiedono – talora – complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell’ente con un determinato territorio, che può non corrispondere con quanto rappresentato nell’atto costitutivo o nello statuto”.
Tali complessi accertamenti andranno normalmente effettuati in presenza di holding, licensing, royalties companies, cioè enti aventi a oggetto lo sfruttamento di singoli asset all’uopo conferiti.
Proprio per tale ragione – prosegue la circolare – l’Italia ha effettuato un’osservazione al Commentario dell’articolo 4 del modello Ocse, precisando che la sede della direzione effettiva debba identificarsi anche nel luogo ove è esercitata l’attività principale.
Ebbene, i due predetti criteri di collegamento al territorio dello Stato italiano, previsti dalla novella legislativa, sono considerati dall’Agenzia delle entrate “astrattamente idonei a sorreggere la presunzione di esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione delle società in esame. Si tratta, infatti, di elementi già valorizzati nella esperienza interpretativa e applicativa, sia a livello internazionale che nazionale. Essi si ispirano sia a criteri di individuazione dell’effective place of management and control elaborati in sede OCSE, sia ad alcuni indirizzi giurisprudenziali”. La circolare chiarisce comunque che “la norma non preclude all’amministrazione la possibilità di dedurre – anche in altri casi e assumendosene l’onere – la residenza in Italia di entità esterovestite”.
Alla luce di tali preliminari considerazioni, si comprende come la sottostante ratio legis dell’intervento legislativo sia ravvisata nel miglioramento della “efficacia dell’azione di contrasto nei confronti di pratiche elusive, facilitando il compito del verificatore nell’accertamento degli elementi di fatto per la determinazione della residenza effettiva delle società. In particolare, essa intende porre un freno al fenomeno delle cosiddette esterovestizioni, consistenti nella localizzazione della residenza fiscale delle società in Stati esteri al prevalente scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento di appartenenza; a tal fine la norma valorizza gli aspetti certi, concreti e sostanziali della fattispecie, in luogo di quelli formali, in conformità al principio della “substance over form” utilizzato in campo internazionale”.
A parte il richiamo al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, l’inversione dell’onere della prova è volto a contrastare le esterovestizioni.
Tuttavia, il concetto di esterovestizione non è affatto chiaro e dai contorni nitidi, dal momento che la localizzazione della residenza fiscale di società ed enti in Stati esteri, anche al prevalente scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento di appartenenza, è una pratica che non presenta nulla di abusivo o di illegittimo, ma risponde – al contrario – a legittime esigenze di delocalizzazione territoriale in un mondo globalizzato, anche in chiave di pianificazione fiscale.
La localizzazione della residenza fiscale di società ed enti in Stati esteri diviene illegittima solo allorché non sia effettiva, ma solo sulla carta.
Il vero problema è allora come si distingue l’effettiva delocalizzazione dalla mera esterovestizione. Su questo delicato punto, in sede Ocse è aperto un dibattito dal 2001, a seguito del rapporto del 1998, Harmful Tax Competition, An Emerging Global Issue.
Il nuovo articolo 73, comma 5-bis, del Tuir, inserendosi nel predetto solco tracciato dall’Ocse, rafforza le pretese erariali nei casi di sospetta esterovestizione.
Tuttavia, si pone il problema della compatibilità della predetta disposizione normativa con i trattati comunitari e con le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
Secondo l’Agenzia delle entrate, “la norma è coerente con l’orientamento della Corte di Giustizia, che nella sentenza Centros (Causa C-81/87) ha affermato il principio secondo cui gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato. Principio che risulta, indirettamente, confermato anche dalla più recente sentenza emessa nella Causa C-208/00, relativa ad una controversia concernente una società olandese che, in base all’ordinamento tedesco, era stata considerata residente in Germania a partire dal momento in cui le sue quote di maggioranza erano state acquistate da cittadini ivi residenti”.
Con riferimento al rispetto del principio di proporzionalità, la circolare chiarisce che “la possibilità di fornire la prova contraria garantisce la valutazione case by case e dunque la proporzionalità della norma rispetto al fine perseguito, necessario a mitigare, secondo la suprema Corte, la portata generale delle disposizioni antielusive”.
Il principale problema si pone in presenza di convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, stipulate dall’Italia con lo Stato estero scelto dal contribuente per l’esterovestizione; in tali casi, occorre valutare il possibile contrasto fra queste e la novella legislativa.
A questo proposito, il documento di prassi precisa che le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni “non interferiscono con i differenti criteri di collegamento soggettivo che ciascuno Stato seleziona per stabilire la residenza di un soggetto sul proprio territorio, limitandosi a indicare quali elementi e circostanze devono essere, prioritariamente, valutati in ipotesi di doppia residenza. L’effettiva sede della amministrazione è uno di questi elementi. Per di più, esso è - nella gran parte delle convenzioni – quello determinante per l’attribuzione della residenza di soggetti diversi dalle persone fisiche. La reale presenza della sede della amministrazione nell’uno o nell’altro ordinamento implica, poi, accertamenti di merito e diventa una mera questione di prova da valutare sulla base dei principi interpretativi, affermatisi a livello internazionale e rinvenibili nello stesso Commentario al Modello OCSE di Convenzione. Gli elementi su cui si fonda la presunzione – relativa – introdotta dalla norma in esame si richiamano a quei principi, senza escludere che possano essere di volta in volta valutati altri aspetti, dati e circostanze”.
Insomma, in presenza di un problema di doppia residenza in Italia e all’estero di una società o di un ente legalmente costituito all’estero, dovrà farsi ricorso al concetto di direzione effettiva. I due criteri di collegamento previsti dalla norma serviranno dapprima a porre sul tappeto la questione della doppia residenza, la quale andrà risolta sulla base dei principi interpretativi, affermatisi a livello internazionale, i quali ricomprendono anche quelli previsti dall’articolo 73, comma 5-bis, del Tuir. Considerato che normalmente l’esterovestizione è effettuata in Stati con cui l’Italia ha stipulato convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, l’iter da seguire sarà quello appena descritto. Non è, perciò, da escludere il ricorso alla procedura arbitrale prevista dall’articolo 25 del modello Ocse.
Con riferimento agli Stati e territori a fiscalità privilegiata, con cui l’Italia non ha normalmente stipulato convenzioni contro le doppie imposizioni, si legge dalla circolare che “è evidente che la presunzione di residenza nel territorio dello Stato dell’entità estera rende – in punto di principio – inoperante la disposizione dell’art. 167. Non sarà imputabile al soggetto controllante il reddito che la controllata stessa, in quanto residente, è tenuta a dichiarare in Italia. Qualora, tuttavia, sia fornita la prova contraria, atta a vincere la presunzione di residenza in Italia, la controllata non residente rimane attratta – ricorrendone le condizioni – alla disciplina dell’art. 167”.
Infine, circa gli effetti che discendono dalla presunzione relativa, è puntualizzato che “il soggetto estero si considera, ad ogni effetto, residente nel territorio dello Stato e sarà quindi soggetto a tutti gli obblighi strumentali e sostanziali che l’ordinamento prevede per le società e gli enti residenti”, quali la tassazione dei capital gain, le ritenute da operare sui pagamenti di interessi, dividendi e royalties corrisposti a non residenti.