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Attualità

Interessi passivi, una stretta che viene da lontano

Stanno per cambiare le regole per la loro deducibilità. Le ragioni alla base delle modifiche

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Fanno discutere le modifiche contenute nel disegno di legge sulla Finanziaria per il 2008 riguardanti i nuovi limiti di deduzione degli interessi passivi dal reddito d’impresa. L’accusa che viene, da più parti, mossa è quella per cui le nuove regole penalizzerebbero gli investimenti produttivi e, in primo luogo, le “pmi” molto diffuse in Italia. Se ci si limita a considerazioni, per così dire, “da bar”, il ragionamento sottostante a tale critica non fa una piega. Se si passa sul versante della Politica tributaria (con la P maiuscola) è tutta un’altra storia.

Il ragionamento “semplicistico” è facilmente comprensibile: se un imprenditore è costretto a indebitarsi per produrre ricchezza per il Paese, sopportando interessi passivi che vanno a diminuire la ricchezza prodotta, non è giusto che tali interessi passivi non siano deducibili dai ricavi prodotti, perché si pagherebbero tasse su redditi non prodotti.
Per fare un banale esempio, se un imprenditore ricava 1.000 dalla vendita di beni e servizi e spende 600 per stipendi, salari, materie prime e altri costi generali, oltre a 400 per interessi passivi, l’effettivo reddito prodotto è zero; rendendo indeducibili gli interessi passivi, si potrebbero pagare tasse su un imponibile fino a 400, se tutti gli interessi passivi non fossero ritenuti fiscalmente deducibili.
Dove andrebbe a prendere i soldi per pagare le tasse il nostro imprenditore? Di qui a concludere che così si penalizzano gli investimenti produttivi, il passo è breve.
Conclusione che sarebbe ulteriormente avvalorata, sempre in un’ottica “da bar”, dal fatto che solo gli interessi passivi sono le vittime sacrificali e non anche, ad esempio, i costi per materie prime.
L’uomo qualunque un po’ più accorto non riuscirebbe, in sostanza, a spiegarsi cosa hanno di tanto pericoloso gli interessi passivi rispetto agli altri costi sopportati dall’imprenditore, tali da indurre il legislatore a limitarne la deducibilità ai fini fiscali.

Ebbene, per poter consentire al “non esperto” in questioni fiscali di farsi un’idea un po’ meno semplicistica della realtà, bisogna fornirgli qualche altra informazione.
Solo così si sarà reso un servizio al cittadino, mettendolo nelle condizioni di poter giudicare – come è giusto che sia in un regime democratico – le scelte di politica tributaria.
A questo proposito, è sufficiente ipotizzare che il nostro imprenditore – grazie alla globalizzazione dei mercati finanziari – abbia portato all’estero parte della propria ricchezza finanziaria, avendola depositata in una banca in qualsiasi parte del mondo (per quanto riguarda gli imprenditori italiani, i lidi preferiti sono quelli fisicamente più vicini all’Italia, in primis la Svizzera).
Per essere un po’ più precisi, la banca estera in cui si è depositata la ricchezza fa parte di un gruppo bancario che opera anche in Italia.

Ciò posto, ritorniamo al nostro esempio e domandiamoci: “che convenienza avrebbe il nostro imprenditore, che ha tanti soldi depositati nella sua banca all’estero, di indebitarsi con la banca italiana facente parte dello stesso gruppo economico di quella estera?”.
La risposta dell’uomo qualunque sarebbe: “nessuna convenienza”. Perché il nostro imprenditore non ha affatto bisogno di farsi prestare i soldi dalla banca italiana, avendone già a sufficienza nella banca estera; perciò, non sopporterà gli interessi passivi, ma guadagnerà 400 di reddito d’impresa (1.000 di ricavi – 600 di costi) su cui pagherà le sue brave tasse in Italia.
Ed è qui che casca l’uomo qualunque!

Nel dare questa risposta, non si prende in considerazione un aspetto molto importante che guida il comportamento di ogni imprenditore: le tasse per un imprenditore sono un vero e proprio costo che, al pari di ogni altro onere aziendale, va minimizzato.
È allora evidente che se il nostro imprenditore riesce a escogitare una qualche soluzione per non pagare le tasse e non correre seri rischi di essere beccato, tanto di guadagnato per lui e tanto peggio per l’Erario.

Gli interessi passivi – a differenza dei costi per materie prime, per stipendi, per servizi e per ammortamenti – consentono di non pagare le tasse, senza fare uso di costi per fatture false o senza battere gli scontrini fiscali per ottenere profitti in nero.
Il nostro imprenditore che fa profitti “in bianco” in Italia, proprio grazie agli interessi passivi, li trasferisce – quasi per incanto – in Svizzera o in un altro lido estero. E così l’Erario italiano rimane a bocca asciutta, così come rimarrebbe se non si fossero battuti gli scontrini fiscali o si fossero dedotti costi fittizi.

Riprendendo l’esempio già fatto, se i 400 di interessi passivi pagati alla banca in Italia corrispondono specularmente a 400 di interessi attivi pagati dalla banca estera, due circostanze sono evidenti:
1. il nostro imprenditore si è “auto-prestato” soldi
2. l’“autoprestito” è avvenuto grazie all’interposizione della banca, la quale sicuramente lucrerà una commissione da interposizione.

Il risultato finale è che imprenditore e banca ci guadagnano a danno dell’Erario italiano: la banca incassa la commissione e l’imprenditore italiano non paga un euro di tasse in Italia sui profitti realizzati.

Messo di fronte a questa situazione, l’uomo qualunque più scaltro potrebbe obiettare: “questo è vero, ma il nostro imprenditore dovrà pagare imposte sui 400 euro di interessi attivi incassati in Svizzera e, quand’anche in tale Paese non pagasse un euro di tasse, perché gli interessi attivi non sono là tassati, è comunque obbligato a dichiarare in Italia gli interessi attivi incassati in Svizzera, perché, come ogni residente in Italia, è tassato sui redditi ovunque prodotti”.
Tutto ciò è vero, ma solo in teoria.

Nella pratica, il nostro imprenditore potrà “spersonalizzare” la propria ricchezza, intestandola a società fiduciarie e trust residenti in Svizzera; in alternativa, qualora non si fidasse di chi dovrà poi gestire i suoi soldi, farà questo semplice ragionamento: “che possibilità ha il Fisco italiano di “scoprire” che non ho pagato le tasse in Italia per interessi attivi guadagnati su un anonimo conto svizzero?”.
Se la risposta a tale domanda è che il Fisco italiano ha basse probabilità, il nostro bravo imprenditore non dichiarerà un euro al Fisco italiano (qui subentra un calcolo costi-benefici da effettuarsi sulla base dell’effettività delle disposizioni normative contenute nella direttiva n. 2003/48/Ce, in materia di tassazione del risparmio transfrontaliero, a contrastare possibili evasioni fiscali).

Il discorso finora svolto per l’imprenditore individuale si complica se si rapporta ai gruppi societari multinazionali.
Il principio sottostante rimane comunque lo stesso: in un’epoca di globalizzazione dei mercati finanziari, i finanziamenti costituiscono un agevole strumento di pianificazione tributaria internazionale, volta a minimizzare il carico impositivo negli Stati a medio-alta fiscalità e a trasferire redditi in Stati a bassa fiscalità o che concedono regimi fiscali privilegiati.

Di fronte a siffatto quadro di riferimento, quale sarà la risposta politica più appropriata?
È evidente che l’uomo qualunque non potrà più candidamente affermare che la limitazione alla deduzione fiscale degli interessi penalizza gli investimenti produttivi, perché dietro a questi si può sempre annidare il trucco degli “autofinanziamenti”.

La risposta più sensata potrebbe, allora, essere quella di distinguere i “veri” finanziamenti dagli “autofinanziamenti”, concedendo la piena deducibilità degli interessi passivi pagati sui primi e negando totalmente la deducibilità a quelli pagati sui secondi.
Tuttavia, riflettendoci un po’ sopra, ci si rende subito conto che non è poi così tanto facile per il Fisco italiano scoprire che in Svizzera il nostro imprenditore ha aperto un conto anonimo su cui vanno a finire i profitti guadagnati in Italia, o che ha “spersonalizzato” la sua ricchezza finanziaria.

Verrà naturale suggerire al legislatore la stipula di accordi tra Autorità politiche, italiane e svizzere.
Tuttavia, gli accordi devono essere voluti da entrambi i contraenti e le Autorità politiche svizzere potranno obiettare a quelle italiane che se i conti anonimi sono svelati per fini fiscali all’Erario italiano, escogitando meccanismi di “ripersonalizzazione” della ricchezza, nessun residente italiano depositerà più un euro nelle banche svizzere, rivolgendosi, ad esempio, a quelle monegasche. Così, la Svizzera, che ha fatto nei secoli del segreto bancario la sua principale fonte di ricchezza, rifiuterà l’accordo.

Le autorità elvetiche potranno rispondere a quelle italiane che solo un accordo multilaterale, cioè tra tutti gli Stati del mondo, può risolvere il problema.
Tuttavia, il nostro uomo qualunque si renderà conto che un accordo del genere difficilmente vedrà mai la luce. E anche se ciò avvenisse, ci sarebbe sempre il rischio che qualche Stato “predichi” bene ma razzoli male.

In questa logica di fondo, è tutta da verificare l’effettiva tenuta sul campo delle previsioni normative contenute nella direttiva n. 2003/48/Ce, in materia di tassazione del risparmio transfrontaliero, la quale comunque non si applica a soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche beneficiarie effettive.

Che cosa rimane allora da fare al nostro legislatore?
Risolvere il problema alla radice: negare la deducibilità degli interessi passivi sopportati dagli imprenditori residenti in Italia. Proprio perché consapevole che ci sono imprenditori che quando si indebitano con le banche lo fanno per davvero, la deducibilità non è totale ma parziale.
In tal modo, gli imprenditori che si indebitano per davvero saranno costretti a pagare, in termini di parziale indeducibilità degli interessi passivi, il prezzo di quelli che lo fanno solo finta, i quali, pur subendo la parziale indeducibilità, potranno continuare a trasferire all’estero parte dei profitti guadagnati in Italia.

E’ questa, a mio parere, la filosofia ultima delle proposte di modifica normativa contenute nel disegno di legge finanziaria per il 2008.

Un’ultima osservazione – questa rivolta principalmente agli esperti fiscali – va fatta sulla previsione normativa contenuta nel 3° comma dell’articolo 96 del Tuir, in corso di approvazione.
Consapevole che a seguito della parziale indeducibilità degli interessi passivi, la fervida immaginazione dei contribuenti tenterà di escogitare manovre volte ad aggirare i nuovi limiti in modo da continuare a trasferire impunemente all’estero ricchezza prodotta in Italia, il legislatore ha accolto una nozione sostanzialistica di interessi passivi.
Sono stati, infatti, equiparati agli interessi passivi gli oneri e i proventi assimilati, derivanti da contratti di mutuo, da contratti di locazione finanziaria, dall’emissione di obbligazioni e titoli similari e da ogni altro rapporto avente causa finanziaria, con esclusione degli interessi impliciti derivanti da debiti di natura commerciale.
In tal modo, se – per magia di finanza aziendale creativa – un interesse passivo si trasforma in un costo per derivati sostanzialmente assimilabile a un interesse passivo, anche questo costo subirà la relativa indeducibilità ai fini fiscali.


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