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Attualità

Marchio dello studio: l'acquisto è deducibile per cassa

Il corrispettivo va assoggettato a Iva e, per il cedente, rappresenta un reddito "diverso"

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L'Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 30/E del 16 febbraio 2006, ha chiarito che, nel caso in cui un professionista acquisti i diritti di utilizzazione di un marchio di un altro studio professionale al fine di utilizzare il "buon nome" del predetto studio per incrementare la propria clientela, i costi relativi all'acquisto sono deducibili per cassa, in base alle ordinarie regole previste dall'articolo 54 del Tuir.
In capo allo studio "cedente", il corrispettivo, invece, sarà soggetto a Iva e verrà tassato come reddito diverso in base all'articolo 67, comma 1, lettera l), del Tuir (reddito derivante "dall'assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere").

Il caso esaminato
Come accennato, l'Agenzia delle entrate ha risposto a un interpello di un avvocato che, al fine di aumentare la credibilità e affidabilità del proprio studio professionale nei confronti dei clienti, è intenzionato ad acquistare, nell'esercizio della propria attività professionale, il "marchio" di un noto studio legale che gode di un'ottima e consolidata reputazione.
Così facendo, l'avvocato potrebbe fruire del "buon nome" dello studio legale cedente operando alla stregua di una sua filiale o di uno studio a esso associato o comunque collegato.
Tale acquisto viene, quindi, effettuato dall'avvocato con la prospettiva di incrementare la propria clientela, di applicare tariffe più elevate rispetto alle attuali nonché di fruire comunque indirettamente di tutte le operazioni legate alla promozione dell'immagine poste in essere dallo studio legale titolare del "marchio".
Il problema sollevato riguarda il corretto trattamento fiscale da attribuire alla predetta operazione, giacché non è chiaro se il costo di acquisto, peraltro corrisposto in via anticipata e in unica soluzione, debba essere dedotto come vero e proprio bene immateriale (e quindi ammortizzato applicando l'articolo 103 del Tuir) oppure possa essere dedotto per cassa nell'esercizio in cui avviene il pagamento.

Il trattamento fiscale dei marchi
Per comprendere la soluzione cui è pervenuta l'Agenzia delle entrate, è opportuno analizzare, brevemente, la disciplina fiscale applicabile ai marchi d'impresa.
A tale proposito, l'articolo 103, comma 1, secondo periodo, prevede che le quote di ammortamento del costo dei marchi d'impresa sono deducibili in misura non superiore a un decimo del costo.
Va, pertanto, compreso cosa si debba intendere per "marchio d'impresa".
In termini generali, così come riportato nel principio contabile nazionale n. 24, il marchio (insieme alla ditta e all'insegna) è uno dei segni distintivi dell'azienda (o di un suo prodotto fabbricato e/o commercializzato) e può consistere in un emblema, in una denominazione e/o in un segno.
Al marchio che risponde ai requisiti di novità, originalità e liceità è riconosciuta una particolare tutela giuridica (marchio registrato).
A tale proposito, il Dlgs 10 febbraio 2005, n. 30 ("codice della proprietà industriale"), nel definire i segni suscettibili di essere registrati presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi, chiarisce che "possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa" ... tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente ... "purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese".
Inoltre, la classificazione internazionale dei prodotti e servizi, include alla classe 42 anche i servizi giuridici.
Secondo tale previsione, sembra essere quindi riconosciuto anche ai soggetti diversi dagli imprenditori, quali gli avvocati, la possibilità di registrare e trasferire marchi.
Su tale ultimo aspetto, però, l'Agenzia delle entrate, nella risoluzione n. 30/E che si commenta, esprime dubbi legati al fatto che, siccome l'attività professionale a differenza delle attività commerciali è caratterizzata dall'esistenza dell'intuitus personae che connota il rapporto tra cliente e professionista, è da escludere che la capacità professionale di attrarre clientela, intesa come credibilità e affidabilità dell'attività professionale posta in essere, possa essere ricondotta a un "bene immateriale" autonomamente trasferibile.

La posizione dell'Agenzia delle entrate
Parendo dai predetti dubbi sull'inquadramento civilistico della fattispecie proposta dal contribuente, per giungere a un corretto inquadramento fiscale della stessa, è necessario qualificare esattamente il contratto e cioè stabilire quali siano gli obblighi e i diritti scaturenti dal contratto che si vuole stipulare.
Nel caso esaminato, non sembra realizzarsi una effettiva cessione di un "marchio" inteso come segno distintivo volto a contraddistinguere un bene o un servizio.
Secondo l'Agenzia delle entrate, si tratta, piuttosto, di un contratto di natura obbligatoria nel quale l'avvocato, a fronte del corrispettivo pagato, può utilizzare il predetto "marchio" sulla carta intestata del proprio studio professionale, sull'elenco telefonico, sulla propria targa professionale, in occasione dei convegni, eccetera, al fine di apparire nei confronti dei clienti come uno studio associato o comunque collegato allo studio titolare del segno grafico in questione nella prospettiva di aumentare la visibilità e la credibilità del proprio studio professionale.
Pertanto, se così è, il costo, sostenuto per fruire del "buon nome" dello studio titolare del "marchio" e, quindi, in sostanza per incrementare la propria clientela, è senz'altro inerente all'esercizio dell'attività professionale svolta dal contribuente e, pertanto, deducibile nella determinazione del reddito di lavoro autonomo.
Le spese devono, infatti, essere correlate all'attività nel suo complesso a prescindere dall'economicità della singola operazione e non deve quindi rinvenirsi, per la loro deducibilità, un rigoroso nesso con i singoli compensi.
Pertanto, è possibile, per il contribuente, dedurre integralmente, e per cassa, la somma versata allo studio titolare del "marchio" in applicazione dell'articolo 54 del Tuir.

Inoltre, per il cedente, in conformità a quanto già affermato nella risoluzione 29 marzo 2002, n. 108, le somme percepite assumono rilevanza anche ai fini della determinazione del proprio reddito.
Tali importi vengono, infatti, corrisposti a fronte dell'assunzione di obblighi ben precisi che consistono nel permettere a un altro soggetto l'utilizzo del proprio "marchio" consentendogli di fatto di operare come uno studio professionale collegato.
Ne deriva che l'importo percepito va inquadrato tra i redditi diversi di cui all'articolo 67, comma 1, lettera l), del Tuir e tassato di conseguenza.

Infine, relativamente al trattamento dell'operazione ai fini dell'Iva, non sembrano porsi particolari problemi di imponibilità considerato che il predetto importo, corrisposto allo studio titolare del marchio, si configura come corrispettivo di una prestazione di servizio, consistente, appunto, nel permettere l'utilizzo del suddetto marchio.
Pertanto, sussistendo sia il presupposto oggettivo (l'operazione rientra nell'articolo 3 del Dpr 633/72) che soggettivo (chi compie l'operazione è inquadrabile nell'articolo 5 del medesimo decreto), le prestazioni in discorso debbono essere assoggettate a Iva.

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