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Attualità

Trattamento fiscale del contratto di cointeressenza "propria"

Possibili connessioni con la disciplina in tema di thin capitalization

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La riforma fiscale contenuta nel Dlgs 344/2003, recante sostanziali modifiche alle norme relative ai componenti del reddito d'impresa, ha fornito interessanti occasioni di approfondimento in merito a un contratto che forse per alcuni riveste ancora carattere marginale: il contratto di cointeressenza. Senza la pretesa di esaurire l'argomento, si propone un'analisi del contratto di cointeressenza, nell'accezione "propria", rilevandone gli aspetti salienti e cercando di indagare sulle possibili connessioni con la normativa in tema di thin capitalization (articolo 98 del Tuir).

Il legislatore civilistico relega la trattazione del contratto in argomento solo all'articolo 2554 del codice civile, dal quale si ricava che il contratto di cointeressenza può assumere due diverse forme:

  • impropria, nella quale vi è l'apporto di capitale o lavoro e la partecipazione agli utili, ma non alle perdite
  • propria, nella quale vi è partecipazione agli utili e alle perdite, ma nessun apporto.

Mentre la prima specie contrattuale persegue scopi di finanziamento, diversamente la cointeressenza propria appare finalizzata alla realizzazione di relazioni di collegamento tra imprese.

Nell'accezione "propria" del contratto in argomento, fattispecie che qui s'intende esaminare, lo scopo del "cointeressante" è quello di alleviare la gestione economica dell'impresa da perdite il cui verificarsi non appare "certo" ma solamente "probabile". A fronte di tali benefici lo stesso cointeressante s'impegna a cedere al "cointeressato" parte degli eventuali utili nel caso la gestione dell'impresa si rivelasse profittevole.

In egual senso si è indirizzata la miglior dottrina che ha ritenuto di evidenziare i seguenti elementi essenziali del contratto in oggetto:

  • non vi è impiego di capitale e/o denaro
  • al momento della stipula del contratto, nessuno dei soggetti coinvolti iscrive crediti e/o debiti verso la controparte (i soggetti si limitano ad assumere un impegno reciproco)
  • esiste un'alea da ambo le parti.

Quindi, mentre l'associazione in partecipazione è caratterizzata dal fatto che vi è sempre un apporto (articolo 2549 c.c.) e la partecipazione agli utili costituisce il "corrispettivo" di quest'ultimo, differentemente nella cointeressenza l'apporto può mancare laddove viene prevista una partecipazione sia agli utili sia alle perdite(1) (cointeressenza propria).
Si è quindi innanzi a un accordo che, a buona ragione, alcuni autori definiscono "parassicurativo" che genera un "obbligo di fare"(2), avente natura reciproca, dove l'impiego di capitale è richiesto solo nell'eventualità di una perdita e mai come elemento dal quale discende il perfezionamento dell'accordo stesso.

Un primo parallelo possibile, peraltro già operato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 503 del 23 gennaio 1996, è di certo quello con il contratto di società. A questo proposito, si può constatare immediatamente come il contratto di cointeressenza, sia nella forma propria sia in quella impropria, si differenzia da quest'ultimo, in primo luogo per la mancanza di un autonomo patrimonio comune, in secondo luogo per l'assenza di una gestione comune dell'impresa(3), che rimane esercitata esclusivamente dal cointeressante.

Nel contratto in argomento, il rapporto partecipativo (se così può essere definito) appare, innanzitutto, fondato su un fatto incerto e non determinabile a priori, e si sostanzierà in una mera cessione di denaro da una parte o dall'altra, senza che esista un corrispettivo ovvero un benché minimo legame con una qualsivoglia prestazione di servizi.
Sotto il profilo tributario, dalla mancanza del legame predetto discende l'esclusione degli eventuali utili dall'ambito applicativo dell'Iva per mancanza del presupposto oggettivo di cui agli articoli 2 e 3 del Dpr 633/1972.
Diversamente, dal lato delle imposte dirette, il legislatore, con il disposto di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b) del Tuir, assimila la fattispecie in parola a quella dell'associazione in partecipazione con apporto di lavoro prevedendo la deducibilità degli utili corrisposti dal reddito del "cointeressante" e conseguentemente la tassazione degli stessi in capo al percettore ovvero al "cointeressato".
Tale orientamento è peraltro confermato dalla circolare n. 26/E del 16 giugno 2004 nonché dalla recente risoluzione n. 62 del 16 maggio 2005.

Sul tema della deducibilità della remunerazione del cointeressato, si segnala comunque la posizione autorevole di Lupi(4) che, dando una lettura alternativa della problematica, rappresenta dei dubbi che potrebbero limitare la deducibilità del provento dovuto al cointeressato. Infatti, "l'impegno" a reintegrare parte delle perdite potrebbe già essere considerato un vero e proprio "apporto" che poiché differente da quello di "opere e servizi" (ai sensi dell'articolo 109, comma 9, lettera b), del Tuir) non consentirebbe alcuna deduzione.
Tralasciando la tesi proposta dall'autore citato, senz'altro meritevole di attenzione ma sulla quale è bene attendere ulteriori approfondimenti, a parere di chi scrive, un'impostazione ugualmente coerente con i requisiti posti dall'articolo 109 (in tema d'inerenza) può essere quella(5) che ritiene il vantaggio del cointeressante sostanziarsi nel coinvolgimento del terzo nel rischio d'impresa, con l'attribuzione a quest'ultimo di una quota di utili.
Gli utili in oggetto, dalla parte dell'impresa cointeressante, potrebbero essere considerati come costo sostenuto a fronte di una sorta di "assicurazione" che copre l'impresa dall'eventualità di perdite, quindi come componente negativo strettamente inerente all'attività d'impresa e deducibile ai sensi del citato articolo 109(6).

Altro aspetto importante che merita opportuno approfondimento è quello attinente al principio da utilizzare per assoggettare a tassazione detti proventi.
A tal proposito, seppure il legislatore, con riferimento agli utili da cointeressenza o da associazione in partecipazione, utilizzi correntemente il termine "corresponsione", nel caso di contratto in essere tra soggetti in regime di reddito d'impresa è indubbio che il principio d'imputazione non può che essere quello della competenza di cui all'articolo 109, comma 1 del Tuir, slegato quindi dalla effettività della corresponsione e percezione.
Ciò per due motivi essenziali:

  1. il principio di competenza è uno dei principi fondamentali del reddito d'impresa
  2. le deroghe a tale principio, a favore di quello "di cassa", sono (e devono essere) espressamente previste dal legislatore.

Del resto, nella cointeressenza propria, dove manca l'apporto, non è possibile alcuna assimilazione con il regime fiscale dei dividendi imputati, come noto, per cassa.
Diversamente, nella cointeressenza impropria, dove c'è l'apporto, sempre che quest'ultimo sia di capitale o misto, il regime fiscale è quello dei dividendi e quindi l'imputazione è per cassa.
Per completezza, nel caso si tratti di un contratto di cointeressenza propria intercorrente tra due società, si avrà quindi che l'eventuale utile potrà essere integralmente dedotto dal reddito della società cointeressante e concorrerà per competenza, per la quota concordata, alla formazione del reddito della società cointeressata.

Dal punto di vista strettamente contabile, come peraltro suggerito dalla dottrina prevalente, la rilevazione del contratto suddetto potrà avvenire ricorrendo, in sede di chiusura del bilancio, alle cosiddette scritture di integrazione, quindi appostando nel conto economico un apposito rateo passivo che misuri il costo presunto di competenza dell'esercizio, ovvero la partecipazione agli utili che si reputa di dover erogare al cointeressato in conformità al negozio di cointeressenza(7).
Dall'altra parte, il cointeressato, nel caso sia come detto un'impresa, attraverso la medesima tecnica contabile potrà rilevare l'apposito rateo attivo che misuri il ricavo presunto di competenza dell'esercizio.

Dal punto di vista dell'Irap, si ritiene che sussista la deducibilità, da parte del cointeressante, degli utili corrisposti al cointeressato, in quanto, nella cointeressenza propria, tale operazione è qualificabile come una vera e propria remunerazione dovuta a fronte dell'obbligazione assunta da quest'ultimo di rifondere il cointeressante nel caso in cui, diversamente, si verifichino delle perdite.

Infine, si vuole esaminare che rapporto esiste tra la fattispecie contrattuale fin qui discussa e la normativa mirante al contrasto all'utilizzo della sottocapitalizzazione (thin capitalization).
A tal proposito, appare interessante verificare se il contratto di cointeressenza propria può rientrare nei limiti di deducibilità statuiti al comma 1 dell'articolo 98 del Tuir.
Segnatamente, si discute se tale contratto possa (o no) essere ricompreso nella fattispecie di cui al successivo comma 6 del citato articolo.

Bisogna in primo luogo considerare che tale norma è stata emanata con le finalità di contrastare l'erosione di base imponibile che si realizza attraverso la distribuzione mascherata di utili, sotto forma di interessi o altri proventi deducibili.
Questa finalità si ritrova meglio al comma 6 del medesimo articolo, dove il legislatore fa riferimento a "...comportamenti ed atti giuridici che seppure non qualificandosi quali prestazioni di garanzia, ottengono lo stesso effetto economico...", ricomprendendo così qualsiasi atteggiamento, del socio o di sue parti "correlate", che possa avere l'effetto di una garanzia tale da indurre i terzi finanziatori a tenerne conto nelle scelte relative all'erogazione di finanziamenti fruttiferi.

E' evidente che il dubbio in merito alla qualificazione, ai fini della thin capitalization, del contratto di cointeressenza propria appare legittimo.
Tuttavia, anche alla luce di quanto detto precedentemente, la natura del contratto in argomento fa propendere per un'esclusione dello stesso dal novero delle garanzie creditizie.
Nel caso della cointeressenza propria, mancando un collegamento diretto con il prestito, nel caso di insolvenza del cointeressante (garantito), non si potrà, in alcun modo, determinare alcuna responsabilità in capo al "garante".

In parole povere, nessuna banca potrebbe mai escutere un soggetto cointeressato nel caso in cui un cointeressante (debitore della banca stessa) non onorasse i propri debiti(8).
Sotto questa luce, appare sostenibile che il legislatore, quando afferma "...stesso effetto economico", si riferisce a prestazioni di garanzia che presentano un'equivalenza con il finanziamento in oggetto. Quindi, una garanzia specifica (non generica), cioè che consente al creditore il recupero della somma erogata.
Differentemente, la cointeressenza propria si sostanzia, come detto, in un contratto "parassicurativo", quindi connotato da aleatorietà, che prevede sì l'obbligo del cointeressato di rifondere parte delle perdite (se si verificano), ma anche quello del cointeressante di elargire parte degli utili nel caso di impresa profittevole.
Inoltre, non potrà mai rinvenirsi un obbligo specifico relativo a un particolare finanziamento (ben definito) né potrà mai immaginarsi, in caso di mancato pagamento di un finanziamento da parte del cointeressante, una rivalsa sul patrimonio del cointeressato da parte del creditore particolare del cointeressante.

Nel caso, poi, di contratti di cointeressenza propria stipulati tra società, la cointeressata non garantisce il singolo finanziamento, ma si limita a dare certezza alla copertura delle perdite, senza peraltro favorire alcun singolo creditore.
Manca quindi il legame tra "comportamento del socio e singolo finanziamento"(9), richiesto dall'articolo 98 del Tuir, essenziale per far scattare la parte sanzionatoria dello stesso articolo ovvero quella che pone un fermo limite alla deducibilità degli interessi passivi collegati al finanziamento.


NOTE:
1) D. Stevanato, L. Barbone, Remunerazioni finanziarie commisurate all'utile e indeducibilità fiscale, in Dialoghi di diritto tributario, febbraio 2004, ed. Giuffré.

2) P. Comuzzi, Riforma dei redditi di capitale, la cointeressenza propria senza apporto, in Il Fisco n. 5/99.

3) V. P. Rescigno, art. 2554 - La cointeressenza - in Codice civile commentato, pag. 2638, ed. Giuffré.

4) Paolo Comuzzi e Raffaello Lupi, Contratti di cointeressenza e capitalizzazione sottile, in Dialoghi di diritto tributario, maggio 2005, ed. Giuffré.

5) D. Stevanato, L. Barbone, op. cit.;

6) Su questo tema si veda anche Uberti - Bona, Cointeressenza, in Enc. dir., Milano, VII, 1960, 307 ss.; Ghidini, Cointeressenza, in Nov.mo dig. It., III, Torino, 1959, 438.

7) In tal senso D. Stevanato, L. Barbone, op. cit.; Belli Contarini, Prime note sui profili tributari dei contratti di cointeressenza, in Riv. Dir. Trib., 1993, I, 680.

8) Si veda anche D'Alfonso, Problemi aperti in tema di Thin Capitalization rule, in Boll. trib. n. 2/2005

9) Si veda anche Paolo Comuzzi e Raffaello Lupi, op. cit., in Dialoghi di diritto tributario, maggio 2005, ed. Giuffré


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