
Quando si osserva il mercato del tabacco cinese si finisce per familiarizzare con numeri e moltitudini statistiche talmente estese da richiamare alla mente la geografia dello spazio o la taglia dei continenti, certo non la semplice dimensione di un unico Paese e quella di un solo mercato, percorso da domanda e offerta. Una volta però oltrepassato questo limite d’analisi e ricondotto lo sguardo sul profilo puramente contabile del nesso che oggi lega indissolubilmente Tasse e Sigarette nel territorio dell’ex Celeste Impero, ecco riemergere con chiarezza i tratti fondamentali della questione.
Fisco&Tabacco in Cina, i numero della smoking syndrom
Il vasto settore che si occupa della produzione del tabacco, incluse la vendita e lo smercio dei prodotti che ne derivano, ha consegnato nel 2005 alle casse dell’erario cinese oltre 15 miliardi di euro di tasse e d’imposte, ovvero, una somma pari al 5 per cento del gettito complessivo annuale delle entrate tributarie. In pratica un incremento di 2 miliardi rispetto ai 13 miliardi incassati dal Fisco di Pechino l’anno precedente, ovvero, nel 2004. Ma la relazione finanziaria tra Fisco e business del tabacco non si esaurisce meramente con la raccolta degli oneri legati al versamento del tributo fiscale.

L’andamento del gettito delle imposte originate dall’immissione sul mercato e dal consumo di circa 2 mila miliardi di sigarette l’anno nel corso del biennio 2004-05 (i dati riportati nel grafico sono espressi in miliardi euro).
Fonte: State Tobacco Monopoly Administration.
Il controllo dello Stato
Infatti, dato che l’intera infrastruttura produttiva, costituita da decine di aziende che popolano, operano e commerciano in questo particolare segmento dell’economia, è controllata al 99,9 per cento dallo Stato, con rare eccezioni decisamente ininfluenti sull’andamento dei flussi nazionali, anche i profitti che i singoli operatori economici realizzano scivolano regolarmente nelle casse dell’erario di Pechino. Insomma, non essendoci una distinzione sostanziale tra imposte e profitti, almeno non sovrapponibile a quella elaborata nei Paesi cosiddetti a economia avanzata, l’intera industria del tabacco costituisce oggi, direttamente e indirettamente, il motore principale che alimenta le entrate tributarie annuali della locomotiva cinese. E dato che, nel 2005, le aziende statali attive su questo particolare mercato hanno realizzato 23 miliardi di profitti, anch’essi affluiti rapidamente a potenziare la tenuta dei conti pubblici, ecco spiegato il perché della stretta relazione esistente tra Fisco e Tabacco. In altre parole, non è una questione di esotismo asiatico ma, più cinicamente, si tratta di un semplice interesse contabile davvero sovradimensionato, soprattutto per le scelte interne di politica economica avviate e introdotte nel corso dei due decenni passati.

Profitti delle società che operano nel settore del tabacco e relative spese sanitarie sostenute nel 2005 per curare i danni alla salute causati, direttamente e indirettamente, dal consumo di circa 2 mila miliardi di sigarette
(i dati riportati nel grafico sono espressi in miliardi di euro)
Fonte: Ccer
La sindrome dello Smoking Dragon
Secondo l’ultimo Rapporto realizzato e diffuso dal China Center for Economic Research di Pechino, il più autorevole e influente tra i centri di ricerca governativi, nel 2005 le spese in ambito sanitario sostenute dal Governo centrale per porre rimedio ai danni prodotti dal dilagare della moda del fumo hanno superato, per la prima volta nella storia recente della Cina, l’entità finanziaria dei profitti dichiarati regolarmente, e altrettanto ordinatamente ricondotti all’interno della riserva delle finanze pubbliche, dalle aziende che operano nell’industria del tabacco. La ricerca del Ccer si fonda principalmente su due analisi distinte. In primo luogo, l’esercito dei consumatori di tabacco cinesi è oramai di circa 350 milioni di fumatori che, in base anche ai dati delle diverse organizzazioni internazionali che seguono con preoccupazione l’evolversi della questione, ogni hanno conduce alla vendita e allo smercio di quasi 2 mila miliardi di sigarette. Naturalmente, insieme a un consumo così esteso oramai crescono di anno in anno le statistiche che riportano il numero dei decessi legati, direttamente e indirettamente, alle malattie riconducibili all’abuso nell’uso del tabacco. In particolare, in Cina si stimano circa 700 mila decessi l’anno.

Il numero delle sigarette vendute e consumate in Cina nel biennio 2004-05.
(i dati riportati nel grafico sono espressi in migliaia di miliardi)
Fonte: State Tobacco Monopoly Administration.
Il risultato è che le spese necessarie per fornire le cure mediche e fronteggiare la rincorsa alla sigaretta, che attrae non soltanto la popolazione adulta ma ben il 30 per cento di chi non ha ancora raggiunto il quindicesimo anno d’età, comportano un esborso a carico dello Stato di oltre 24 miliardi l’anno. Ma la perdita più grave, hanno sottolineato gli autori del Rapporto, è che in un momento decisivo per la crescita dell’economia cinese il venir meno d’un capitale umano di 700 mila persone l’anno non è affatto compatibile con gli obiettivi di un Paese che punta ad acquisire e a mantenere il rango di leader nell’arena globale.
Come arrestare l’incendio dei conti pubblici
Dopo aver ratificato nel 2005 la Convenzione internazionale per il controllo del tabacco, le autorità di Pechino hanno deciso, recentemente, di assumere un atteggiamento più deciso. Tuttavia la soluzione fiscale, quella legata all’aumento di almeno il 50 per cento della tassazione che, secondo gli esperti, condurrebbe immediatamente a una minore commercializzazione e consumo di oltre 4 milioni di pacchetti di sigarette, non viene per il momento giudicata praticabile. Per due ragioni: la prima, pur riconoscendo che il livello dell’imposizione sull’intero settore, vicino al 50 per cento, è più basso rispetto al prelievo, che varia dal 60 all’80 per cento, applicato in altri Paesi come Giappone, Brasile, Germania e il Regno Unito, considera rischioso aumentare le tasse sul tabacco favorendo il rafforzamento del fronte del contrabbando. Infatti il commercio illegale delle sigarette è già ben radicato e determina ogni anno una perdita secca di oltre 2 miliardi di euro per il Fisco. In secondo luogo, agire sul settore con una maggiore imposizione potrebbe condurre all’improvviso arrestarsi della produzione con conseguente ricorso a licenziamenti difficilmente riassorbibili, dato che si tratta in genere di occupati residenti in aree agricole ancora ben lontane dai primati dei maggiori centri urbani.
No smoking in aree pubbliche e divieto di avvio di nuove fabbriche
Il responsabile cinese della sanità ha annunciato la settimana scorsa che, in breve, sarà predisposta e licenziata una nuova legislazione che proibirà di fumare in luoghi pubblici, incluse le aree ad alto affollamento e frequenza appartenenti al business privato. Naturalmente, oltre alla nuova norma, sarà rafforzato il divieto che blocca dal 2005 la costruzione e l’avvio di nuovi impianti destinati alla produzione del tabacco e alla commercializzazione dei suoi prodotti. Questo bando normativo, gradualmente applicato e tendente a far rientrare l’intera industria entro parametri contabili accettabili, per il momento coinvolge anche le maggiori multinazionali produttrici che, naturalmente, guardano al mercato cinese come a una sorta di Eden dove far convergere quanto prima i loro bilanci con annessi ricavi e profitti. Al momento, però, il Governo cinese non sembra disponibile a cedere regalando nuove quote di mercato alle aziende estere che, quindi, restano alla finestra.
Il perché del dilemma fiscale cinese sul tabacco
La smoking syndrome che affligge Pechino rispetto al come e, soprattutto con quali mezzi, affrontare la questione del dilagare oramai incontrollato dell’affezione dei cinesi al tabacco, ben 100 milioni secondo il Ministero della Salute non ne possono proprio fare a meno, è in parte dovuta al fatto che lo Stato è al medesimo tempo controllore, gestore e imprenditore riguardo all’intero settore. Si tratta quindi di un conflitto d’interessi di tipo cumulativo e stratificato nel tempo difficilmente risolvibile, a patto di accettare una perdita di gettito consistente, oppure, di spalancare le porte agli operatori privati che naturalmente fremono e incalzano, dato che il mercato cinese della sigaretta che imperversa tra Pechino e Shanghai costituisce 1/3 di quello globale. Peraltro, analizzando i dati diffusi recentemente dall’Amministrazione finanziaria cinese – State Tax Administration – che si riferiscono alle 100 aziende domestiche che lasciano scivolare più risorse nelle casse dell’erario, ben 35 risultano attive nel business del tacco. In pratica, queste società hanno versato nel 2005 oltre 10 miliardi di euro al Fisco di Pechino, ovvero, 2 miliardi di euro in più rispetto al 2004. Ma il dato che maggiormente incuriosisce, e che spiega in parte la criticità della questione, è che le risorse finanziarie portate in dote all’erario da queste imprese equivale al 35 per cento di quanto versato dalle 100 maggiori aziende nel loro complesso, circa 28,5 miliardi di euro. Tradotto in termini più flessibili, significa che l’industria del tabacco non può essere percorsa da modifiche temporanee o transitorie senza determinare un impatto comunque difficilmente stimabili in termini di perdite o, nella migliore delle ipotesi, di guadagni, ma a lungo termine, certo non nel breve periodo e nemmeno sul medio tempo d’attesa.

Le imposte versate complessivamente dalle 100 aziende che contribuiscono maggiormente al gettito dell’erario di Pechino
(i valori riportati nel grafico sono espressi in miliardi di euro)
Fonte: Amministrazione finanziaria cinese