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Dal mondo

Fisco Usa, un record sopra i 10mila miliardi di dollari

E’ la cifra incassata dall’Erario negli ultimi cinque anni pari a circa 8 mila miliardi di euro ovvero quasi un terzo del Pil mondiale annuo

La locomotiva Usa corre col Fisco in poppa. Ma a fronte di questo storico risultato vi è anche un’immensa biblioteca di norme e di regole che, oltre alle tasse, sottraggono in media 900 dollari l’anno ad ogni singolo cittadino e più di 6 miliardi di ore di tempo all’intera popolazione americana soltanto per acquistare, studiare, compilare e inviare i diversi moduli e i modelli di dichiarazione dei redditi.
Il succedersi quasi imbarazzato di numerosi Palazzi della burocrazia, di autostrade normative all’apparenza senza caselli, di moltitudini di imposte, di tasse locali e di sconti fiscali che, sovente, per numero e per complessità, scivolano perfino al di fuori dell’orizzonte contabile dei circa 131 milioni di contribuenti statunitensi che, annualmente, provvedono ad alimentare le politiche e le iniziative concrete della locomotiva principale dell’economia mondiale, almeno fino a quando India e Cina non avranno colmato l’enorme distanza che ancora le separa dagli Usa, rovesciano nelle casse dell’Erario di Washington 2 mila miliardi di dollari l’anno, circa 1,6 miliardi di euro, ovvero, una somma maggiore rispetto al Pil italiano e allineata con la ricchezza prodotta ogni anno dalla locomotiva tedesca.
Un risultato di tutto rispetto ma…
Si tratta di una somma toccante alla quale, fanno notare gli esperti e gli analisti che appartengono alla pletora di centri di ricerca che affollano da anni con i loro report i corridoi della Casa Bianca e gli uffici del Congresso, si devono però aggiungere le entrate fiscali che rifluiscono, anch’esse in coincidenza della stagione fiscale, nei caveaux degli Erari esangui ma esigenti dei singoli Stati che costituiscono l’Unione e che, nel 2004, hanno lambito la soglia dei 600 miliardi di dollari. Soltanto ora, sommando i due gettiti si può definire il perimetro contabile che raffigura e dà contenuto al profilo del più muscolare e atletico Fisco del Pianeta che, ricorrendo alla inespressività formale delle moltitudini statistiche e alla sommarietà delle regole, lascia scivolare al di fuori delle tasche degli americani e dai bilanci delle aziende ben 2 mila 600 miliardi di dollari l’anno tra imposte, tasse e tributi locali sovente dal profilo normativo esotico e piuttosto incoerente con la collezione di raffigurazioni mitologiche con cui gli Stati Uniti hanno finito per occupare una quota significativa di capitoli e di pagine nella letteratura economica e amministrativa del Pianeta.
…anche un elefante burocratico
Insomma, altro che Eldorado della burocrazia in versione soft, oppure, sorta di Eden dove vige l’assoluta assenza di norme, o ancora, patria del nobile principio del no-taxation. Al contrario, gli Usa oggi, e forse lo sono sempre stati, sono un Impero delle tasse, un reame sovraffollato da balzelli e da imposte e sorretto da un’infrastruttura quasi incontrollata di uffici, di norme e di agenzie governative, che si occupano dai kiwi ai casinò e che costano agli americani centinaia di miliardi di dollari l’anno.
L’Agenzia delle Entrate americana nel G7?
In pratica, in considerazione degli incassi annualmente contabilizzati dall’Amministrazione tributaria statunitense – Internal Revenue Service (IRS) – non sarebbe affatto inattesa l’associazione di un suo rappresentante internazionale in occasione degli appassionanti meeting del G7, dato che i Paesi che ne fanno parte esibiscono un Pil nazionale la cui taglia contabile, a parte il caso del Giappone e forse della Germania, qualora riuscisse a liberarsi dalla zavorra che frena le sue potenzialità, appare decisamente modesta oppure perfettamente in linea rispetto alle entrate fiscali assicurate annualmente dall’IRS, ovvero, dall’Agenzia delle Entrate americana alle politiche decise a Washington. Infatti, dato che l’erario federale statunitense esibisce in media 2mila miliardi di dollari l’anno di entrate, una somma superiore alla ricchezza prodotta annualmente da Paesi come, per esempio, la Russia, la Cina, l’India, il Canada, la Francia, e perfino l’Italia, l’estensione delle riunioni e dei tavoli aperti ciclicamente ai grandi del Pianeta anche ai responsabili dell’Amministrazione tributaria Usa non parrebbe affatto sconsiderata, almeno sul piano strettamente contabile. Naturalmente, transitando dai parametri freddamente numerici a quelli della convenienza politica e di quella, ancor più sensibile, della diplomazia, sarebbe difficilmente realizzabile. Ma vi immaginate il Presidente degli States che presiede un G7 con, alla sua destra, il responsabile della sua Amministrazione fiscale? Altro che conflitto d’interessi.


*Andamento delle entrate tributarie complessive registrate dall’erario federale statunitense dal 2000 al 2004. In riferimento al 2005 si tratta di una stima, peraltro ritenuta altamente probabile. Fonte: IRS. (I valori riportati nel grafico sono espressi in migliaia di miliardi di dollari).




* Fonte: The Economist, stime sul 2005. (i valori riportati nel grafico sono espressi in migliaia di miliardi di dollari)

La Realpolitik del Fisco statunitense

Naturalmente, per ridisegnare il profilo del Fisco Usa, affatto light e soprattutto ben presente nelle tasche di milioni di contribuenti, incluse le aziende, è necessario osservare l’ambito regolamentare ed amministrativo che condiziona il centro e la periferia dell’Impero americano. Innanzitutto, il principio aureo della deregulation non equivale affatto negli States all’impero assoluto di una incerta e fumosa no rule area. Al contrario, dal New Deal in avanti, gli americani hanno appreso, in rapida successione, a convivere con una montagna di norme, di leggi e di codici che, con maggiore o minore intensità, dettano il ritmo alle imprese locali, alle istituzioni, agli individui e perfino alle mitiche multinazionali, su tre livelli amministrativi distinti ma egualmente decisivi: Stato, Contea e, naturalmente, Washington. Dunque, altro che Eldorado della deregulation, oppure, paradiso sregolato e indistinto, libero dall’abbraccio burocratico.

Una vera e propria letteratura fiscale
In realtà, di regole ve ne sono in abbondanza, soprattutto se si discute di fisco. A questo riguardo, almeno secondo quanto riferito dal National Taxpayer Advocate, una sorta di autorità garante dei diritti dei contribuenti americani, l’estensione cartacea delle prescrizioni e delle regole in materia tributaria con cui i cittadini sono tenuti a confrontarsi avrebbe oramai superato il milione di pagine, costituendo de facto una sorta di nuova letteratura fiscale che, tradotta in termini di spesa, impone l’esborso aggiuntivo di circa 120 miliardi di dollari l’anno da parte dei 131 milioni di contribuenti americani. In pratica, ciascun soggetto passivo d’imposta spenderebbe mediamente, oltre ai 15 mila dollari di tasse federali, circa 900 dollari soltanto per porsi in sintonia con i percorsi normativi e per entrare in possesso della modulistica imposta dalle modifiche profonde e incessanti decise a Washington. Naturalmente, la quota maggiore dell’esborso dettato dalla hyper-regulation tributaria è da riferirsi non soltanto all’acquisto dei nuovi modelli ma alle ore consumate per chiudere finalmente la finestra relativa degli adempimenti fiscali. Si tratta di ben 6,6 miliardi di ore che, tradotte in eventuali perdite di guadagni personali oltre che di sonno, corrono oramai ad un ritmo frenetico che incide ogni anno sul calendario del contribuente medio statunitense sottraendogli circa 27 ore dalla sua disponibilità temporale, oltre ai 900 dollari strappati da quella reddituale. Insomma, sono forse queste le ragioni che da anni spingono gli americani ad invocare meno tasse e, soprattutto, una burocrazia più leggera? Chissà.
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