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Dal mondo

Fmi, oltre 600 miliardi di dollari
l’elusione fiscale globale ogni anno

Secondo l’organizzazione, un terzo delle imposte evitate sfugge alle casse dei Paesi meno ricchi, che tuttavia pagano il prezzo più caro in termini relativi

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Illusionismo fiscale, fantasia e creatività normativa, ingegneria finanziaria, sdoppiamento dei volumi finanziari e loro reindirizzo su un’isola che non c'è per il fisco, ma che esiste sempre per le multinazionali. È la storia di un fenomeno, quello dell'elusione fiscale, che per i tecnici e gli esperti del Fondo Monetario Internazionale nasce e si sviluppa, aggiornandosi con continuità, nelle economie con alti livelli di sviluppo per poi disseminarsi e per provocare danni, in termini di perdite di gettito, soprattutto nelle economie dei Paesi in via di sviluppo e tra quelli emergenti, meno ricchi in termini finanziari classici, ma provvisti di materie prime, metalli e minerali.
Il risultato, contenuto nel Policy Paper pubblicato a marzo dal Fmi (dal titolo “Corporate taxation in the global economy”) è che se in termini assoluti l’elusione costa di più ai Paesi più sviluppati economicamente, dove le multinazionali hanno le loro sedi storiche, in realtà in termini relativi, in riferimento al Pil ad esempio, sono proprio le economie meno avanzate a soffrire maggiormente l'effetto drenante innescato dalle diverse tecniche di elusione fiscale.
Tradotto, il tax gap targato elusione fiscale costa più di 400 miliardi di dollari di gettito ai Paesi Ocse con economie a prevalenza "avanzate", mentre 200 sono i miliardi che drena dai Paesi non-Ocse, in prevalenza meno avanzati. Un rapporto 2 a 1, che però, secondo gli esperti del Fmi va ribaltato, sia per la composizione diversa tra economie ricche e povere, sia per gli equilibri interni di gettito, dato che i Paesi “ricchi” da anni oramai contano su una quota ridotta derivante dalla tassazione dei profitti societari, mentre per i Paesi meno avanzati è l'esatto contrario. Sono infatti gli introiti da tassazione di utili e profitti ad alimentare le entrate in realtà dove il lavoro sommerso supera il 50% o il 60% e quindi l'imposta sui redditi delle persone fisiche è spesso irrilevante.

Le vie dell'elusione sono infinite?
Su questo punto i tecnici dubitano. I canali di elusione fiscale, infatti, possono variare a seconda delle caratteristiche specifiche dei sistemi fiscali nazionali e delle reti di trattati sulla doppia imposizione siglati dai Paesi stessi. Ad esempio, la tassazione negli Stati di origine può essere ridotta al minimo trasferendo i ricavi alle controllate o sussidiarie in giurisdizioni a bassa tassazione e iscrivendo sui bilanci domestici spese ingenti cioè dei numeri meno, tipico questo dell'elasticità applicata sui prezzi di trasferimento infra-gruppo. C'è poi l’ibridazione giusnormativa nella gestione strategica della proprietà intellettuale (PI), e dei diritti che ne derivano in termini monetari, in Paesi a bassa tassazione per ridurre le imposte sul reddito delle società. Di recente, è in voga anche il trasferimento del debito attraverso prestiti intra-gruppo al fine di creare un indebitamento eccessivo in Paesi con imposte elevate e prestiti o crediti altrettanto smisurati in Paesi a bassa tassazione. Una modalità questa che generalmente corre con fenomeni di stagnazione economica. Un altro fenomeno, sopito ma perdurante, è quello di acquisti commerciali effettuati sfruttando reti di trattati "amichevoli" sotto il profilo fiscale. Ad oggi, sono in vigore più di 3mila convenzioni per evitare le doppie imposizioni sotto il cui ombrello è possibile operare. E chiudiamo con la tendenza dei grandi gruppi a localizzazione le vendite di attività in giurisdizioni a bassa tassazione, per evitare le imposte sulle plusvalenze. Un altro modo, cui avevamo accennato, per ridurre la tassa globale di una multinazionale è spostare strategicamente brevetti, patenti, IP di valore in società affiliate registrate in giurisdizioni offshore. In sostanza, in questo caso le aziende conducono le loro attività di ricerca e sviluppo (R&S) in un Paese, ma trasferiscono la proprietà del brevetto che viene successivamente creato in un altro Paese dove i flussi di reddito risultanti saranno tassati ad un tasso inferiore. È il trionfo dell'economia immateriale. Un canale di elusione ad alto pregio è quello del differimento delle imposte, diverso dagli altri in quanto interessa solo il valore attuale di tasse pagate o differite invece delle entrate totali. E comunque, le multinazionali possono sempre evitare le tasse di rimpatrio cambiando la residenza della società o, diversamente, invertendo i ruoli nella holding di gruppo. Questa prassi è più in generale coincidente con le inversioni aziendali, casi particolari di fusioni e acquisizioni transfrontaliere (M&A) influenzate da pure considerazioni fiscali.

L’effetto digital sul fenomeno dell’elusione
In realtà, l'elusione c’è sempre stata. Una prima traccia è esposta sul reclamo del fisco tedesco indirizzato al tesoro Usa risalente al 1949 e oggi desecretato dagli archivi nazionali Usa. In sostanza, i detective delle Entrate dell’allora Germania dell’Ovest lamentavano il fatto che le aziende americane incluse nel piano Marshall tendessero ad utilizzare scambi e flussi infragruppo al fine di presentare al fisco tedesco dei bilanci perennemente in rosso o a somma zero, il che equivaleva a un’imposta uguale a zero. Ecco, da lì di tempo ne è passato, però l’elusione ha continuato a crescere, in particolare, di recente il fenomeno ha subito un’accelerazione in linea con il boom delle attività immateriali, come la proprietà intellettuale, internet o il digitale in senso lato, che sono più facili da trasferire in paradisi fiscali rispetto alle risorse fisiche e strutturalmente tradizionali.
Al riguardo, è sufficiente soffermarsi su di un'analisi delle multinazionali americane e delle loro società sussidiarie internazionali e/o controllate nel 2017, condotta dal Bureau of Economic Anlysis statunitense (BEA) e pubblicata di recente, per avere chiaro l'effetto dell'economia digitale sulla ricollocazione oltreconfine dei profitti delle grandi aziende. In sostanza, con riferimento all'anno d'imposta 2016, l'ultima raccolta dei dati del BEA ha rilevato come la quota di profitti di fonte estera dichiarati dalle multinazionali Usa tramite le attività delle rispettive società controllate, con partecipazioni di quote maggiori del 50%, non di meno, è stata pari a oltre 1.000mld di dollari, 1.015mld per l'esattezza. Nel 2009, tanto per intenderci, la stessa categoria di profitti delle controllate Usa non avevano superato gli 800mld di dollari, fermandosi a 778mld di dollari. Andando ancora più indietro, la banca dati del BEA indica in 74mld di dollari i profitti netti delle controllate delle multinazionali Usa riferibili al 1992, 63mld di dollari nel caso di società controllate con partecipazioni di quote maggiori al 50%. In pratica, un balzo netto, senza precedenti rispetto ad altri valori di bilancio, come i ricavi o i patrimoni, che fissa l'istantanea tra il '92 e il 2016 d'un aumento dei profitti gestiti dalle multinazionali Usa tramite le loro società sussidiarie estere o controllate (a seconda dei dati di riferimento) di almeno 14 volte. Sui questi dati ci sono alcune considerazioni da fare: la prima, non sono prese in considerazione le controllate estere che operano espressamente in settori finanziari, ad esempio le banche o anche alcune società strettamente finanziarie; la seconda puntualizzazione riguarda la quota di partecipazione, che in alcune tabelle è il 50%, quindi espressamente maggioritaria. Ecco, questi due fattori escludono quindi dalle analisi comunque preziose del BEA un numero imprecisato di controllate estere. Dunque, i dati esposti sono da considerarsi "stime minime" riguardo il peso effettivo dei profitti imputabili a società estere controllate dalle multinazionali Usa. 

Chi paga il conto? Le economie meno avanzate
Insomma, il boom dell'elusione non è nuovo, ma i risultati sembrano essere in corso costante d'aggiornamento. Un dato di fatto, tracciato dall'analisi del Fondo monetario internazionale, è che i Paesi più poveri sono quelli colpiti più duramente perché si affidano maggiormente alle entrate fiscali delle società rispetto ai Paesi. I risultati di Johannessen, Torslov e Wier (2017), che utilizzano dati delle controllate delle grandi multinazionali in 142 Paesi, tra cui 25mila aziende in 94 Paesi in via di sviluppo, suggeriscono che proprio queste realtà meno sviluppate sono più esposte al trasferimento artificioso degli utili transfrontalieri. Con il risultato che Paesi come il Gabon o, mettiamo, l'Angola, rischiano annualmente di vedersi scippare il 60-80% delle imposte sui profitti che controllate e gruppi esteri avrebbero dovuto correttamente versare.
 

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