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Dal mondo

Il Giappone e l’imposta sui consumi.
Una storia di amore e di odio_1

Dal 3% del 1989 al 10% del 2019. Tappe di un tributo impopolare ma necessario per la tenuta dei conti pubblici

tasse giappone

In Giappone l’aumento dell’Iva dall’8 al 10%, più volte rinviato, è in programma per l’autunno del 2019. Nel Paese, l’imposta sui consumi ha poco meno di 30 anni di vita: mai popolare fra consumatori e commercianti, questo tributo continua ad essere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale ed è anche oggetto delle indicazioni dell’Ocse, del Fondo monetario internazionale e degli studi di alcuni dei principali economisti della scena mondiale. Ripercorrere la storia dell’Iva nipponica, magari approfittando della pausa estiva, è un po’ compiere un istantaneo viaggio nel tempo nel cuore dell’economia del Sol Levante.

La fine di un tabù
A Tokyo si inizia a parlare dell’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto nel 1979. Il primo esponente politico di rilievo a presentare l’idea è il primo ministro Masayoshi Ohira, alla guida del Paese per una breve stagione. È l’epoca dell’affermazione planetaria per l’economia nipponica, che si ritrova all’alba degli anni ’80 come un modello di successo mondiale fatto di acciaio, elettronica e produzione Just in time.  La necessità di un riequilibrio fiscale, con l’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto per riportare in ordine i conti pubblici, comincia però a essere posta all’ordine del giorno. 

1989: comincia l’era dell’Iva
L’ultimo degli anni ‘80 segna un vero e proprio cambio di epoca per il Sol Levante, sia da un punto di vista storico che fiscale. Il 7 gennaio muore l’Imperatore Hirohito. Termina così l’era Showa – in Giappone a ogni Imperatore corrisponde un’era – e comincia quella Heisei (“raggiungimento della pace universale”). Pochi mesi dopo il decesso del sovrano, comincia una nuova fase anche dal punto di vista tributario. Dopo un tentativo da parte del primo ministro Yasuhiro Nakasone nel 1987, nell’aprile 1989 il Governo del premier Noboru Takeshita introduce per la prima volta l’imposta sui consumi, fissandola al 3%. Si tratta di un’aliquota tutto sommato ridotta, ma si apre una nuova era, quella dell’Iva, anche per il fisco nipponico. 

Imposta sul valore aggiunto e crisi economica nel “Decennio perduto”
Dopo 30 anni di crescita impetuosa, quasi una rivincita economica dopo la sconfitta nella Guerra mondiale, i Novanta rappresentano per il Giappone un brusco risveglio. Gli storici parlano, infatti, di “Decennio perduto” per l’economia nipponica: una serie di anni di stagnazione economica, con il prodotto interno lordo che cresce con molta lentezza  e una bolla speculativa che vede crollare il prezzo dei terreni fra il 1990 e il 1999.  Nel 1997, nel bel mezzo della tempesta economica che coinvolge le cosiddette Tigri asiatiche (Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong) il primo ministro Ryutaro Hashimoto decide per un nuovo aumento dell’imposta sui consumi dal 3% al 5%. L’aggravarsi della recessione economica nipponica (con il Pil che sprofonda a quota -2%) è da più parti attribuita anche all’incremento dell’Iva. Ulteriori aumenti di questa imposta rimangono a lungo esclusi dall’agenda economica dei governi giapponesi.

Il nuovo millennio
Visto l’andamento del decennio precedente, il Giappone dei primi anni Duemila non si trova più fra i “primi della classe” del mondo in quanto a competitività. Nel Sol Levante, a parte poche grandi eccezioni come la Toyota, il livello di produttività aziendale è stagnante. La Cina popolare, rivale storica di Tokyo, fa ingresso nella Organizzazione mondiale del commercio e scala rapidamente le classifiche dell’economia globale. Dopo la netta vittoria elettorale del 2005, il nuovo premier nipponico Junichiro Koizumi revoca una sorta di divieto implicito a discutere un aumento dell’imposta sui consumi.


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