Sorpresa! Baghdad sgambetta le major del petrolio. La notte scorsa, infatti, dopo una riunione nient'affatto convulsa ma breve, il Consiglio dei ministri iracheno ha dato il via libera a uno storico disegno di legge che prevede l'introduzione d'una imposta del 35% sui profitti delle multinazionali estere impegnate nello sfruttamento del greggio iracheno. In realtà, la notizia della modifica della flat tax, a oggi ancora in vigore, ha fatto sobbalzare più d'un numero uno delle aziende che operano sul mercato. Tanto che il simpatico sgambetto, in salsa fiscale, ha già lasciato il posto, soprattutto in queste ore, a un vero e proprio schiaffo per mano fiscale, inatteso sia nei modi sia nelle dimensioni, oltre che nei tempi.
Lo shock del passaggio dalla flat tax alla ordinary tax
Il problema principale, come s'affrettano a chiarire consulenti, analisti e osservatori, è che transitare da un regime di tassazione, estremamente blando, fondato su una flat tax pari al 15%, a un sistema ordinario centrato su di una imposta, peraltro rigida nella sua applicazione, con aliquota al 35%, comporterà senz'altro degli scompensi e, di conseguenza, richiederà la riformulazione dei contratti con cui il governo iracheno, da mesi, sta distribuendo decine d'appalti a società estere per l'estrazione del greggio e lo sviluppo di centrali e infrastrutture petrolifere moderne. Fino a oggi, in realtà, la crisi irachena, i rischi connessi all'insorgenza di gruppi paramilitari e islamici di diversa matrice, soprattutto provenienti dall'ala dell'integralismo estremista, aveva consentito alle multinazionali del petrolio di strappare contratti estremamente favorevoli. Ora però il vento è cambiato. E lo dimostra il fatto che il passaggio da un'aliquota modesta del 15% a una, nemmeno troppo eccessiva rispetto al panorama offerto dai Paesi a economia avanzata, del 35%, sembra aver provocato un vero e proprio shock sui big del petrolio.
Perché dal 15 al 35 per cento
Per indagare le ragioni d'una decisione storica, nella cronaca del medio oriente, ma razionale esaminando le circostanze in cui il Paese si dibatte, è sufficiente osservare i dati delle entrate irachene. In pratica, il governo di Baghdad, nel 2008, ha contabilizzato ben 64 miliardi di dollari. Di questi, però, il 90 per cento proviene dalla produzione e dall'export di petrolio. Un trend questo destinato ad affievolirsi e a scendere considerevolmente nell'anno in corso. Il prezzo del greggio, infatti, a marzo 2008 viaggiava intorno ai 150 dollari al barile, mentre ora l'altalena dei listini si focalizza sulla soglia dei 60 dollari al barile. Sempre tendendo in conto lo stato dell'economia irachena e il meteo della sua fonte principale, il greggio, si ha chiara la ragione che, alcuni giorni or sono, ha determinato la revisione verso il basso delle risorse disponibili per il 2009. Insomma, i prossimi dodici mesi, decisivi per la ripresa irachena, le autorità e i responsabili di Baghdad potranno contare soltanto su 59 miliardi di dollari. Un tesoretto davvero modesto se raffrontato con gli obiettivi da realizzare. Le multinazionali del petrolio sono avvisate.