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Dal mondo

L’offshore sul viale del tramonto? (2)

Nel 2006 al via, tra luci e ombre, la neo-crociata contro il mito, a volte esotico oltre che soltanto ragionieristico, dei paradisi fiscali

Vskipper Offshore Cup 2005Come al solito, sono gli Usa a guidarla, lasciandosi scivolare alle spalle la lunga coda degli Stati, dal Regno Unito alla Corea, dall’Australia alla Nuova Zelanda, inclusa la Russia, le cui finanze non riescono più a mitigare le ingenti perdite contabili indotte dal boom inarrestabile di un sistema fiscal-finanziario, all’apparenza made in Paradise, a danno dei rispettivi Erari nazionali.
Il diffondersi di una chiara avversione tributaria nei riguardi dell’evasione fiscale in salsa offshore è oramai ben visibile anche negli Stati Uniti, per decenni piuttosto distanti dalle problematiche legate al diffondersi degli Eden fiscali. Naturalmente, nel caso specifico degli States, la coincidenza dell’11 settembre con quella di un debito pubblico, circa 8mila miliardi di dollari, e di un deficit, che carezza i 400 miliardi di dollari, ha avuto un ruolo decisivo nell’inversione della strategia della Casa Bianca.
Gli Usa i primi a stringere la morsa a colpi di norme
Comunque, il cambiamento è stato talmente significativo che nell’anno passato almeno due proposte avanzate dal Senato hanno avuto come effetto quello di avviare una stretta significativa sul business legato all’offshore. In pratica, alle aziende che trasferiscono le loro sedi nelle giurisdizioni a bassa tassazione per evadere il Fisco federale, sarà impedito di sottoscrivere contratti con le Amministrazioni pubbliche, in particolare con le agenzie e con i dipartimenti che dipendono dai Trasporti, dal Tesoro, e dagli Interni, oltre che dagli organi che gestiscono questioni legate alla residenza e al territorio. In pratica, si tratta di una norma piuttosto dura che, automaticamente, potrebbe espellere migliaia di imprese dal capitolo relativo alle spese pubbliche che, negli Usa, muove centinaia di miliardi di dollari l’anno in favore degli operatori economici del settore privato in forma di appalti e di servizi. Peraltro, oltre al congelamento dei contratti pubblici per le società che si lasciano sedurre dai paradisi fiscali, è ancora allo studio la possibilità di estendere le aliquote ridotte al 15 per cento che si applicano ai dividendi e ai guadagni di borsa soltanto, ed esclusivamente, alle imprese che risiedono negli Usa e le cui azioni risultano quotate sul vasto mercato borsistico statunitense. Insomma, viva l’American business environment, con buona pace di chi ama il libero mercato in forme assolute e non soggette a nessuna mediazione normativa.
L’onda lunga della crociata contro i paradisi fiscali
Subito dietro gli Usa navigano, per la verità a vista, il Regno Unito, la Nuova Zelanda, l’Australia, la Corea del Sud, la Grecia, la Cina e perfino la Russia. Dunque, si tratta di un’onda lunga e di una politica destinata a non esaurirsi nello scivolar via di una stagione, i naviganti che fanno rotta sui mari della finanza sono avvertiti.
Il self control britannico
In particolare, Londra, che ha identificato proprio nel boom disinvolto dell’offshore la causa principale del contrarsi recente del suo conto commerciale e dell’indebolimento del gettito dell’Iva, avvierà a partire da quest’anno una serie di iniziative il cui obiettivo mirato riguarderà sia il controllo dei flussi finanziari che navigano sulle carte di credito emesse e registrate presso banche registrate nei paradisi fiscali, la cui quota maggiore è costituita in realtà da ex-territori o colonie amministrati in passato direttamente dalla Corona britannica e peraltro ancora oggi membri, con pieno diritto, del Commonwealth. Inoltre il Fisco britannico aumenterà anche i controlli per arrestare la crescita delle frodi Iva che preoccupano anche il Parlamento di Sua Maestà oltre che i responsabili dell’economia inglese e questo nonostante le critiche decise lanciate nei mesi scorsi dai rappresentanti dell’imprenditoria britannica.

La Grande Madre Russia
Perfino in Russia, dove fino a poco tempo fa la parola offshore costituiva un semplice vocabolo dall’aroma esotico, i responsabili delle Finanze hanno deciso di avviare una stretta nei riguardi delle società che abusano in maniera eccessiva delle molteplici offerte sponsorizzate dai paradisi fiscali. La nuova politica, sostenuta in sordina dal Cremlino, si avvarrà di due strumenti. Innanzitutto, le procedure relative ai controlli, proprio in coincidenza con il nuovo anno, vedranno un aumento esponenziale degli scambi di dati e delle coordinate bancarie autorizzati tra i diversi enti ed organismi che gestiscono i risparmi ed i flussi finanziari. In questo modo, almeno secondo gli esperti del Fisco moscovita, sarà finalmente possibile arrestare il deflusso di capitali che sta condizionando i conti pubblici russi. In secondo luogo, un numero consistente di accordi sulla doppia imposizione saranno progressivamente rivisitati e rinegoziati per tagliare le autostrade normative che hanno facilitato nel corso degli ultimi cinque anni la fuga verso l’offshore della ricchezza di buona parte dei magnati russi.

Guerra all’offshore al passo col canguro

Anche in Nuova Zelanda e in Australia il boom delle transazioni finanziarie indirizzate verso i Paradisi fiscali ha iniziato a turbare le autorità competenti, al punto che in entrambi i Paesi sono state lanciate negli ultimi mesi delle iniziative piuttosto insolite allo scopo di arrestare la corsa del fenomeno. In particolare, proprio nella terra dei kiwi si è deciso di frenare e di regolamentare in maniera più efficace l’uso del Transfer pricing con l’obiettivo di disconnettere l’abbraccio dannoso tra il pianeta dell’offshore e le migliaia di società estere che investono sull’economia nazionale stabile e in progressiva espansione. In termini contabili, il fine dell’operazione sarebbe quello di evitare che le imprese facciano scivolare sulle sabbie dei Paradisi fiscali circa 4 miliardi di dollari che, inevitabilmente, dovrebbero essere poi successivamente recuperati aumentando le imposte che gravano sulle tasche dei contribuenti individuali. Alla fine del 2006 dovrebbe essere già possibile poter trarre un bilancio della complessa operazione avviata dal fisco neozelandese, anche se i dubbi degli esperti permangono.
Portogallo e Corea del sud
Infine, entrano a pieno titolo a far parte dei neocrociati che lottano per la regolamentazione dell’offshore, sorta di Terra Santa dei capitali e delle rendite, anche Lisbona e Seul. Per quanto riguarda il Portogallo, è già stata avviata una serie di controlli che vedrà impegnata l’Amministrazione tributaria lusitana nei riguardi di decine di banche e istituiti di credito, ritenuti corresponsabili della pratica dell’evasione fiscale dal profilo e dai tratti tipici che riconducono ai paradisi fiscali. Più complessa invece l’iniziativa avviata dal Fisco sud-coreano. Infatti, in questo Paese, che per decenni ha custodito le chiavi di un modello asiatico di sviluppo "possibile", il Fisco locale ha costituito una speciale task force con il compito, ben definito e precisato, anche su solide basi normative, di controllare le strategie e le operazioni di ingegneria finanziaria con cui le società estere che operano sul mercato nazionale sono oramai solite esportare i loro profitti verso le giurisdizioni a bassa tassazione, lasciando invece le perdite sulle dichiarazioni e sui documenti contabili destinati annualmente al National Tax Service coreano.
L’offshore torna a essere sinonimo di regata
Insomma, tutto sembra muoversi nella direzione di una neo-crociata, naturalmente non dichiarata, dal profilo fiscal-finanziario che guarda oramai con chiaro turbamento con disamore crescente all’universo dell’offshore, forse l’unico che fino ad oggi è riuscito a permanere al di fuori dei trend numerici assoluti e perfetti che segnano un tratto distintivo della globalizzazione dal volto contabile che invade le Reti, i forum internazionali e le relazioni interpersonali. Ebbene, è giunto davvero il momento di dire addio all’offshore? Chissà…
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