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Dal mondo

Negli Usa la flat tax cade sotto i "colpi di scure" della riforma fiscale

I responsabili dell’economia bocciano il meccanismo dell’aliquota unica e chiudono la porta in faccia all’Iva modello europeo

Rimane invece immutato l’obiettivo, peraltro ribadito più volte dai membri della Commissione incaricata di predisporre un progetto di riforma sostanziale del sistema tributario federale, di pervenire a un cambiamento significativo del sistema impositivo made in Usa. Il tutto senza alterare la taglia attuale del cuneo fiscale che si rovescia annualmente sulle tasche degli oltre 131 milioni di contribuenti individuali e sui bilanci delle aziende.
La Commissione bipartisan incaricata lo scorso anno dal Presidente degli Usa, George W. Bush, di predisporre un progetto di riforma sostanziale del sistema tributario federale al fine di potenziarne il profilo competitivo e, al medesimo tempo, assottigliarne entro parametri accettabili la taglia della dimensione burocratico-normativa che lo appesantisce, è finalmente prossima alla mèta. Infatti scade domani, 1° novembre, il termine entro cui la Commissione speciale è tenuta a rivelare, in via definitiva, il testo relativo alle principali modifiche inserite all’interno del piano di riforma del Fisco Usa elaborato nei mesi passati e che, almeno stando a quanto diffuso da fonti ufficiali, dovrebbe contenere un insieme di princìpi largamente condivisi sulla cui base però si innesterebbero due soluzioni chiaramente alternative.
No alla flat tax e niente Iva europea
Innanzitutto sia i membri repubblicani della Commissione che quelli democratici hanno espresso dubbi e perplessità in riferimento all’opportunità di ridisegnare il regime tributario federale, attualmente progressivo e abitato da molteplici aliquote, sull’eventuale santuarizzazione di un’imposta come la oramai mitica flat tax che esibisce una sola e unica aliquota e che, almeno secondo i precetti dei suoi sostenitori più fanatici, si applica con assoluta indifferenza rispetto alla taglia dei redditi dichiarati dalle aziende e dai contribuenti individuali. Proprio in ragione di questo strappo, secondo alcuni inatteso, che sembra essersi prodotto tra i responsabili dell’economia statunitense e la celebrata e sovente sovrastimata flat tax, per molti osservatori sembra giunto il tempo di ricondurre la tassa, per molti aspetti leggendaria in Europa, all’interno del capitolo saggiamente ordinario piuttosto che assolutamente mitico delle alternative e delle ricette fiscali disponibili, a patto che si considerino le diverse criticità contabili e le differenze che condizionano i variegati sistemi sociali e politici che affollano il complesso panorama internazionale.
Naturalmente, oltre ad aver bocciato in maniera piuttosto netta l’eventuale introduzione della flat tax, i componenti della Commissione speciale incaricata di redigere le linee generali sulle quali dovrebbe cominciare a muoversi l’annunciata riforma del Fisco americano, hanno lasciato sul terreno anche l’ipotesi legata all’introduzione di un’imposta indiretta federale, dunque applicabile ovunque, disegnata sul modello europeo dell’Iva e destinata a sostituire e razionalizzare il variegato universo statunitense delle sales tax, ovvero, delle molteplici e variegate imposte che gravano sugli acquisti e sulle vendite di beni e servizi. Resta invece immutato l’obiettivo bipartisan, peraltro ribadito più volte dai membri della Commissione, che consiste nel suggerire un cambiamento significativo del sistema impositivo made in Usa che però non alteri la taglia attuale del cuneo fiscale che si rovescia annualmente sulle tasche degli oltre 131 milioni di contribuenti individuali e sui bilanci delle aziende. Dunque la riforma dovrebbe realizzarsi a somma zero ed esibire un profilo piuttosto evidente di neutralità, almeno sul versante del prelievo complessivo.
Il Fisco in campo contro la bolla del mattone
Inatteso invece l’intervento che la Commissione propone per ridurre il mare delle deduzioni che, in questi anni, hanno contribuito a ridurre gli incassi dell’Erario per una cifra prossima agli oltre 200 miliardi di dollari. In particolare su questo versante il Fisco dovrebbe essere impegnato e utilizzato per frenare la corsa della bolla speculativa relativa al mercato immobiliare che, nel corso degli ultimi cinque anni, ha spinto in alto i prezzi delle abitazioni di ben il 69 per cento. In pratica oggi il costo medio di una casa è di circa 220 mila dollari, ovvero, oltre 180 mila euro. Rispetto al medesimo periodo dell’anno passato, il listino medio dei prezzi del mattone è cresciuto del 15 per cento.
Un’occhiata alle cifre
Si tratta di una mina contabile che riguarda le tasche di milioni di americani che hanno sottoscritto circa 600 miliardi di dollari di prestiti ipotecari sfruttando il basso livello dei tassi di interesse, la corsa del valore degli immobili che supera nettamente quella dei titoli di Borsa e, in ultimo, la generosità delle agevolazioni fiscali che interessano il settore della casa. Entrando nel dettaglio, non soltanto negli ultimi anni, dal 1997 al 2004, le imposte e le tasse sulla compravendita delle proprietà sono state tagliate in maniera significativa ma, nel contempo, sono state introdotte delle agevolazioni speciali che consentono di dedurre le somme versate in forma di interessi relativi ai prestiti ipotecari sottoscritti da chi ha deciso di impegnare le rispettive proprietà per effettuare nuovi investimenti, anche in settori diversi da quello immobiliare. A questo riguardo, l’improvvisa generosità delle banche deriva dal fatto che il valore degli immobili legati al mare di ipoteche che si diffondono tra gli americani cresce ad un ritmo talmente veloce che il profitto per l’ente creditore è praticamente garantito.
Le conseguenze negative per gli investitori
Naturalmente, qualora vi fossero dei cambiamenti traumatici che determinassero uno spegnersi improvviso della bolla attuale del mattone, milioni di contribuenti statunitensi resterebbero scoperti nei riguardi del sistema delle banche e si trasformerebbero da investitori aggressivi in debitori senza un dollaro. Per tale ragione, la Commissione pensa di introdurre un taglio razionale e intelligente delle deduzioni che hanno stimolato il boom del mercato degli immobili con l’obiettivo di calmierare, senza però congelarlo, il listino attuale dei prezzi, così da garantire una progressiva diversificazione delle somme investite dai contribuenti da un segmento all’altro dell’economia Usa.
La proposta della Commissione
Per raggiungere questo obiettivo, l’idea avanzata dalla Commissione nel Rapporto prevede l’eliminazione della possibilità di dedurre gli interessi versati in relazione ai prestiti ipotecari contratti che, ad oggi, possono riguardare ipoteche fino a un milione di dollari, ma che, dopo la riforma del Fisco, potrebbero ridursi a prestiti variabili tra i 200mila e i 300mila dollari, escludendo di fatto le operazioni realizzate dai contribuenti più facoltosi. In alternativa è stata anche suggerita l’introduzione di un credito d’imposta al posto della deduzione che però, anche in questo caso, interesserebbe soltanto le ipoteche di valore inferiore ai 500 mila dollari. Secondo alcuni osservatori economici, questo intervento sul versante del settore immobiliare dovrebbe garantire all’Erario un maggior gettito di circa 50 miliardi di dollari l’anno. In realtà si tratta di un recupero di liquidità piuttosto modesto se confrontato con il gap che si aprirebbe con il taglio della alternative minimum tax che, in dieci anni, provocherebbe un buco nei conti dello Stato di circa 1.200 miliardi di dollari.
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