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Ocse: contromisure ad hoc per CFC
residenti nei paradisi fiscali - 3

Nel mirino l’eterogeneità che consente alle multinazionali di adottare schemi di pianificazione aggressiva

paradisi fiscali
Nel Rapporto “Implementazioni di regole efficaci in materia di controllate estere”, l’Ocse concentra l’attenzione su sei questioni di rilievo. Nel terzo approfondimento l’attenzione è dedicata all’approccio antielusivo e alle sue implicazioni.  

In cosa consiste l'approccio antielusivo?
L’approccio antielusivo consiste nel limitare l’applicazione del regime CFC soltanto ai casi che concretamente presentano profili elusivi. Infatti, il possesso di una controllata estera non sempre risponde ad intenti di erosione, ben potendo essere giustificato da valide ragioni economiche. La CFC rule, come detto in apertura, serve ad evitare il dirottamento di attività verso paesi con regimi fiscali più miti,  ma non dovrebbe intercettare anche gli investimenti esteri genuini e giustificati da esigenze economiche reali. Tenuto conto che l’esame concreto del profilo elusivo dell’operazione è molto complesso, l’approccio antielusivo non viene solitamente utilizzato come esimente; come avviene in Italia, esso è tuttalpiù utilizzato come causa di disapplicazione. Anche l’Ocse sconsiglia di utilizzare tale tipo di esimente, precisando che l’esistenza di valide ragioni economiche possono, comunque, assumere rilevanza in sede di determinazione del reddito da imputare per trasparenza.
 
L’esenzione de minimis basata sull’aliquota nominale o su quella effettiva
Nel delimitare l’ambito di applicazione dei regimi CFC, una scelta fondamentale riguarda le regole da seguire per individuare gli Stati o territori con regimi fiscali privilegiati.
Le norme CFC, coerentemente con la loro ratio, non possono essere applicate a tutte le entità estere ovunque residenti. Neppure sarebbe possibile la loro applicazione in tutti i casi in cui lo Stato di residenza della controllata presenta un livello di imposizione solo leggermente inferiore a quello dello Stato della controllante. Ogni Stato deve definire, con riferimento al livello di imposizione, soglie quantitative al di sotto delle quali la controllata può essere considerata residente in un paese a fiscalità privilegiata.
Segnatamente, ogni Stato, prendendo come riferimento il proprio livello di imposizione, stabilisce gli scostamenti percentuali al di sopra dei quali si rendono applicabili le regole in materia di controllate estere. Tradizionalmente, gli Stati hanno stilato delle liste dei paesi considerati a regime fiscale privilegiato.
Tale approccio, per quanto semplice, rischia di essere eccessivamente approssimativo e ha pesanti ricadute in termini di immagine per gli Stati inclusi nelle liste. Pur confermando la validità delle liste, l’Ocse evidenzia che molti Stati hanno adottato un approccio case by case che consente di applicare il regime CFC solo allorquando il livello di tassazione della controllata è inferiore di una certa misura percentuale rispetto a quello che si sarebbe ottenuto applicando le regole nazionali. Avendo lo Stato italiano, come precisato nella circolare 35/2016/AE,  adottato il regime casistico, in relazione ad esso è opportuno effettuare qualche considerazione.

Il primo passaggio per la sua implementazione è la fissazione della soglia massima di tolleranza. In Italia, ad esempio, è stata adottata una soglia del 50%: sono considerate residenti in uno Stato a regime fiscale privilegiato le società che hanno un livello di imposizione effettivo inferiore di oltre il 50% rispetto a quello nazionale nominale. In secondo luogo, è necessario determinare i termini di confronto per il calcolo della soglia. Solitamente, si confronta il livello di imposizione che la controllata subisce nello Stato estero con quello che avrebbe subito se fosse Stata residente nello Stato di residenza del controllante. Per quanto riguarda il livello di imposizione della controllata estera, tutti gli Stati fanno riferimento a quello effettivo: il livello effettivo di imposizione non dipende solo dall’aliquota ma anche dalle regole di determinazione della base imponibile. Per capire la differenza tra imposizione nominale ed effettiva si consideri il seguente esempio.
 
Esempio 1
La società A realizza proventi per 100 euro, sostiene costi per 50 euro ed è residente in uno Stato che applica un’aliquota fiscale pari al 20%.
La società, pertanto, avendo realizzato un reddito pari a 50 euro, sconta imposte pari a 10 euro.
In questo caso, l’imposizione nominale (pari al livello dell’aliquota) corrisponde a quella effettiva (pari al rapporto tra imposta e reddito contabile)
Se lo Stato di residenza di A esentasse i proventi in misura pari al 20%, avremmo la seguente situazione.
Il livello nominale di imposizione resterebbe del 20%.
Quello reale, invece, sarebbe influenzato dall’esenzione.
In particolare, il reddito imponibile di A sarebbe pari a 30 euro.
L’imposta sarebbe, quindi, pari a 6 euro.
Rapportando l’imposta al reddito contabile, otterremmo un livello di imposizione effettiva pari al  12%.
 
Con riferimento al livello di imposizione nazionale teorico, invece, alcuni Stati fanno riferimento a quello nominale ( corrispondente all’aliquota), altri a quello effettivo.
La diversità di approcci tra imposizione estera, utilizzata sempre nella variante effettiva, ed imposizione interna, utilizzata in forma effettiva o nominale, deriva dalla differente complessità di calcolo. Come visto nell’esempio, la tassazione effettiva estera si può calcolare come rapporto tra imposta e reddito contabile, entrambi i dati sono nella disponibilità diretta del controllante.
L’imposizione effettiva interna, invece, richiede di ricalcolare il reddito imponibile della controllata in base alle regole dell’ordinamento tributario nazionale. Tale ricalcolo può risultare alquanto complesso.
L’Ocse, pur riconoscendone la maggiore semplicità, sconsiglia l’adozione del livello impositivo nazionale poiché potenzialmente idoneo a rendere parzialmente inefficaci le regole CFC.
Per chiarire la differenza tra i due approcci si ponga mente al seguente esempio.
 
Esempio 2
Reddito contabile: 100 euro.
Reddito imponibile nello Stato estero: 60 euro.
Aliquota di imposta estera: 20%.
Reddito imponibile secondo le regole dello Stato della controllante: 120 euro (costi indeducibili per 20 euro).
Aliquota di imposta dello Stato della controllante: 30%.
Imposta estera: 12 euro.
Livello effettivo di imposizione estero: 12%.
Imposta nazionale teorica: 36 euro.
Livello effettivo di imposizione nazionale teorico: 36%.
 
Il semplice esempio chiarisce come, in presenza di costi indeducibili, l’aliquota nazionale effettiva può essere superiore rispetto a quella nominale e, per l’effetto, l’uso di quest’ultima può risultare inappropriato. L’utilizzo del livello effettivo di imposizione, in ogni caso, non dovrebbe prendere in considerazione le differenze reddituali dovute a variazioni temporanee, ma solo quelle relative a variazioni permanenti. Tornando all’esempio, se i costi indeducibili (pari a 20 euro) potessero essere dedotti in un esercizio di imposta successivo (evenienza tipica degli interessi passivi), di essi non dovrebbe tenersi conto nel calcolo del livello di imposizione effettiva. Eliminando detti costi, il livello di imposizione effettiva e quello nominale tornerebbero a coincidere.


3 - continua
La seconda puntata è stata pubblicata il 6 marzo 2017
La prima puntata è stata pubblicata giovedì 2 febbraio 2017

 
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