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Dal mondo

Ocse, global tax sulle multinazionali.
Col sì di 136 Paesi, al via dal 2023

La soluzione a due pilastri si arricchisce di dettagli e incassa il sì di Ungheria, Estonia e Irlanda

Clipart di un accordo

L’intesa sulla corporate tax globale, ovvero su un sistema di regole comuni a livello internazionale per la tassazione delle imprese multinazionali, fa un ulteriore passo in avanti e incassa nuove adesioni. Venerdì 8 ottobre l’Ocse ha infatti annunciato che 136 Paesi e giurisdizioni fiscali hanno siglato l’accordo che “pone limiti concordati a livello multilaterale” alla concorrenza fiscale tra i Paesi in tema di tassazione delle imprese, comprese quelle attive nel mercato digitale: concretamente si tratta di una rivisitazione della dichiarazione per una soluzione a due pilastri già elaborata a luglio e sottoscritta allora da 130 Paesi (divenuti quasi subito 131, vedi articolo “La corporate tax globale prende forma. Dall’Ocse accordo storico di 131 Paesi”), ma il nuovo testo contiene dettagli ulteriormente perfezionati, frutto degli aggiustamenti e dei negoziati degli ultimi tre mesi. L’esito raggiunto ha consentito all’accordo di ampliare la propria platea di adesioni fino a 136 su 140 membri dell’Inclusive framework di Ocse e G20, incassando anche l’assenso dei tre Paesi Ue che non avevano firmato a luglio e cioè Ungheria, Estonia e Irlanda. Unico assente tra gli Stati membri dell’Unione europea rimane Cipro, che non ha preso parte ai lavori. L’accordo dell’8 ottobre definisce inoltre la tabella di marcia che condurrà alla trasposizione dell’intesa in vere e proprie norme: nel 2022 si prevede la firma di una convenzione multilaterale, che, dopo la ratifica dei singoli Paesi, dovrebbe portare all’entrata in vigore delle diverse parti della soluzione a due pilastri entro il 2023. Nell’immediato, l’accordo approderà al tavolo dei ministri delle Finanze del G20 a Washington per poi passare al vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi a Roma a fine ottobre.

Primo pilastro, 125 miliardi di profitti da redistribuire
La base della soluzione a due pilastri sottoscritta l’8 ottobre perfeziona il testo di luglio con alcuni dettagli. Uno dei più importanti è la quantificazione della parte dei profitti che i soggetti multinazionali dovranno sottoporre a tassazione nella giurisdizione-mercato in cui sono stati prodotti, ovvero dove i beni e servizi sono utilizzati o consumati, superando parzialmente il criterio usuale della presenza fisica sul territorio. A subire questa riallocazione sarà il 25% dei profitti in eccesso rispetto a una prima soglia del 10%. Si tratta di una misura più precisa rispetto alla prima versione dell’accordo, in cui la quota era ancora da individuare in un intervallo tra 20 e 30 per cento del profitto oltre la soglia del 10%. A ricevere un “pezzetto” dei profitti saranno le giurisdizioni in cui la multinazionale produce almeno un milione di euro di ricavi oppure anche solo 250mila euro per le giurisdizioni che hanno un Pil più basso di 40 miliardi di euro. Secondo i calcoli dell’Ocse, grazie al nuovo criterio di riassegnazione, oltre 125 miliardi di dollari di profitti “si muoveranno” verso le giurisdizioni-mercato, una quota maggiore rispetto ai 100 miliardi di dollari inizialmente previsti a luglio, e i maggiori destinatari, sempre secondo l’Organizzazione di Parigi, dovrebbero essere i Paesi in via di sviluppo. La regola riguarderà solo i veri e propri colossi dell’economia globale, ovvero le corporation che fatturano oltre 20 miliardi di euro l’anno (con la prospettiva futura di un abbassamento della soglia a 10 miliardi) e che, va da sé, abbiano una redditività di almeno il 10%, con l’esclusione delle imprese estrattive e quelle che operano nei mercati finanziari regolamentati. L’Ocse calcola che in questo perimetro rientreranno all’incirca 100 soggetti multinazionali. 

Minimum tax al 15%, 150 miliardi di gettito in più
L’altra decisione importante che si attendeva riguarda il livello minimo di tassazione effettiva per i soggetti multinazionali, il nodo essenziale del pacchetto di discipline che compone “Secondo pilastro” dell’accordo. Il nuovo testo fissa definitivamente l’aliquota minima effettiva al 15%, chiudendo la porta all’ipotetica possibilità di un ritocco al rialzo che era stata lasciata aperta dall’indicazione della precedente versione di “almeno il 15%”. La platea dei soggetti colpiti dalla nuova disciplina è più ampia di quella del primo pilastro e coinvolge i gruppi multinazionali con più di 750 milioni di euro di ricavi annuali. Secondo i calcoli Ocse, le entrate fiscali aggiuntive che dovrebbero prodursi grazie al meccanismo ammonteranno a circa 150 miliardi di dollari ogni anno. Anche qui alcune esclusioni e alcune deroghe, come i soggetti governativi, organizzazioni internazionali, no profit, fondi pensione. Prevista anche un’esclusione di alcune regole del Secondo pilastro per 5 anni a favore dei soggetti nella fase iniziale della loro attività internazionale e un’esenzione dall’applicazione della mininum tax nelle giurisdizioni in cui la multinazionale sia presente con una produzione minima di ricavi e profitti (inferiore a rispettivamente 10 milioni e un milione di euro).

Un accordo sempre più global
Già l’iniziale forma dell’intesa per la tassazione delle multinazionali era stata definita storica, perché porterà alla condivisione di alcune regole comuni in gran parte del mercato globale (digitale compreso) dove – si diceva già a luglio – viene generato il 90% del Pil mondiale. La portata storica consiste proprio nell’ampia adesione, quasi unanime, dei 140 Paesi che da anni siedono al tavolo dei lavori, provenienti da tradizioni fiscali e sistemi economici profondamente diversi e in competizione tra loro, dagli Stati Uniti all’Europa, a Cina, India, Hong Kong, Singapore, ma anche Australia, Regno Unito, Svizzera, un gran numero di Paesi africani, dell’area caraibica e dell’America latina. Scorrendo l’elenco di Paesi dell’Inclusive framework, non hanno firmato il documento finale solo Kenya, Nigeria, Sri Lanka e il Pakistan, che in un primo momento aveva dato il suo assenso. La novità più significativa da luglio a ottobre è arrivata dall’Unione europea, con la sopraggiunta adesione anche di Estonia, Ungheria e Irlanda, i tre Paesi dell’Unione che tre mesi fa non avevano sottoscritto la prima intesa. Allo stato attuale dell’Ue manca solo Cipro, che non partecipa all’Inclusive framework.

Il piano di attuazione, rotta verso il 2023
L’intesa dell’8 ottobre contiene anche un piano di attuazione dell’accordo, che fissa il traguardo finale, l’operatività dell’intero sistema, a fine 2023. Il nuovo criterio di localizzazione dei profitti all’interno del primo pilastro si realizzerà attraverso una convenzione multilaterale che dovrebbe essere firmata nel 2022 e che conterrà norme specifiche per regolare diversi aspetti, per esempio la dismissione e sostituzione delle singole Digital tax nazionali introdotte in questi anni da diversi Stati nell’attesa che i lavori sull’accordo globale si finalizzassero. Anche le regole sul secondo pilastro dell’accordo confluiranno in uno strumento multilaterale, previsto per metà 2022. Intanto, l’accordo sarà presentato al G20, prima a Washington alla riunione dei ministri delle Finanze, e poi a fine ottobre a Roma, al vertice dei Capi di Stato e di Governo.

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