Uno Stato può limitare il riconoscimento fiscale delle perdite definitive registrate da una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro se ha rinunciato al potere impositivo sui risultati riferiti alla stabile organizzazione all’interno di una convenzione contro le doppie imposizioni. È il principio espresso dalla Corte di Giustizia Ue, con la sentenza resa nella causa C-538/20 del 22 settembre scorso.
La Corte era stata chiamata a giudicare un caso riguardante una società di capitali tedesca che si era vista negare dalla propria Amministrazione fiscale la possibilità di prendere in considerazione, ai fini del calcolo dell’imposta dovuta in Germania, le perdite subite da una sua stabile organizzazione britannica, chiusa nel corso del medesimo anno di imposta.
Il ruolo delle Convenzioni contro le doppie imposizioni
Le Convenzioni contro le doppie imposizioni sono accordi internazionali con i quali i Paesi contraenti regolano l’esercizio della propria potestà impositiva al fine di eliminare la duplice tassazione sui redditi e/o sul patrimonio dei rispettivi residenti.
In questi accordi, vengono concordate e definite anche le disposizioni sulla cooperazione amministrativa finalizzate alla prevenzione e al contrasto dell’elusione e dell'evasione fiscale.
La finalità delle Convenzioni è proprio quella di evitare la doppia imposizione, o, d’altro canto, la doppia esenzione.
Nel caso specifico, la Convenzione contro le doppie imposizioni e alla prevenzione dell’evasione fiscale del 26 novembre 1964, stipulata tra la Repubblica federale di Germania e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord - come modificata con addendum del 23 marzo 1970 - prevede che gli utili industriali o commerciali realizzati da un’impresa di uno dei territori siano assoggettati ad imposta solo in quel territorio, salvo che l’impresa eserciti, nell’altro territorio, un’attività industriale o commerciale tramite una stabile organizzazione. In questo caso, gli utili realizzati possono essere assoggettati ad imposta nel territorio in cui si trova la stabile organizzazione, ma limitatamente alla parte ad essa imputabile.
La stessa convenzione stabilisce che è escluso dalla base imponibile tedesca qualsiasi reddito derivante da fonti inglesi, nonché qualsiasi cespite patrimoniale ubicato nel Regno Unito che, conformemente alla Convenzione, possa essere assoggettato a imposta britannica. L’Amministrazione fiscale tedesca, tuttavia, si riserva il diritto di prendere in considerazione i redditi e i cespiti patrimoniali così esclusi ai fini della determinazione della propria aliquota d’imposta.
I dubbi del caso e le soluzioni della Corte
La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sugli articoli 49 e 54 del TFUE. In particolare, l’articolo 49 vieta le restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro e specifica che in forza della libertà di stabilimento valgono le condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini (fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali).
Con la sentenza dello scorso settembre, la Corte di Giustizia Ue ha stabilito che se il Paese di residenza ha rinunciato al suo potere di tassare gli utili di una stabile organizzazione all’estero, simmetricamente non bisognerebbe prendere in considerazione le perdite registrate da tali branch e ha chiarito che gli articoli 49 e 54 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una eventuale limitazione alla deduzione delle perdite definitive subite da una stabile organizzazione situata nell’Unione Europea di una società di uno Stato membro, nel caso in cui quest’ultimo abbia rinunciato al suo potere di assoggettare a imposizione tutti i risultati (positivi e negativi) di tale branch, in virtù di una convenzione volta a prevenire la doppia imposizione.
Perdite della stabile organizzazione.
vale l’accordo tra gli Stati membri
Il principio è stato espresso dalla Corte di Giustizia Ue in una recente sentenza
