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Dal mondo

La strana storia del Cile

Dalla scelta liberista alle riforme interne, pregi e difetti di uno Stato che, almeno sul versante economico, si avvicina più al Vecchio Continente

Altopiano del Tatio con i caratteristici gyserNel corso degli anni ’90 mentre altri Paesi dell’area geografica contigua sperimentavano una sorta di glaciazione economica, il Cile ha mantenuto un ritmo intenso caratterizzato da un passo medio di crescita tra il 6 e il 7 per cento del Pil. E anche se la finestra temporale si apre in tempi più recenti e a noi più vicini, ovvero dal 2000 al 2004, la crescita del Paese resta costantemente al di sopra di quella registrata in ambito continentale.
Un livello d’inflazione ragionevole che non irrita eccessivamente il potere d’acquisto dei lavoratori cileni si è ancorato da circa un decennio a un sistema economico e finanziario che nel complesso si è rivelato insolitamente stabile per un Paese latino-americano. E’ esattamente in questa distanza economica dal resto del Continente, all’apparenza fredda e incolmabile, che si è manifestata in questi anni l’eccezionalità del Cile, talmente evidente da elevarlo ad oggetto preferito di interminabili speculazioni filosofiche e di analisi economiche altrettanto estese, che oramai da almeno cinque anni si svolgono all’interno dei principali e più autorevoli centri di ricerca mondiali, non soltanto latino-americani.
La diversità cilena custodita nelle moltitudini statistiche
In tale quadro, la serie dei numeri che, soprattutto a partire dalla fine della dittatura di Pinochet, ha contribuito a scavare un gap profondo tra il Cile e il resto del Continente è davvero impressionante. Innanzitutto, sul versante della crescita economica, misurata raffrontando la corsa del Pil nazionale con quella registrata dalle economie degli altri Stati, la performance cilena è stata costantemente al di sopra di quella messa insieme mediamente dagli altri Paesi latino-americani. Nel corso degli anni ’90, per esempio, proprio mentre l’America Latina sperimentava una sorta di glaciazione economica, il Cile ha mantenuto un ritmo intenso caratterizzato da un passo medio di crescita che ha oscillato invariabilmente tra il 6 e il 7 per cento del Pil. Peraltro, anche trasferendo il punto d’osservazione dell’economia cilena all’interno di una finestra temporale più recente e a noi più vicina, ovvero dal 2000 al 2004, la crescita del Paese resta costantemente al di sopra di quella registrata in ambito continentale. Insomma, contrariamente a gran parte delle teorie economiche che attribuiscono grande rilievo, a volte positivo altre negativo, alle contiguità geografiche, il Cile sembra invece essersi messo in movimento senza curarsi eccessivamente del quadro cartografico generale di riferimento.

A tale riguardo, la performance dell’economia cilena è ancor più evidente e rilevante se si tiene conto che proprio mentre l’Argentina affogava nel disastro di una insensata liberalizzazione che avanzava in generale assenza di regole e il Brasile e l’Uruguay si misuravano con il crollo del sistema finanziario il primo e di quello bancario il secondo, il Cile manteneva invece in equilibro i fondamentali della propria dorsale produttiva, lasciando al di fuori dei propri confini economici e commerciali i venti della recessione e delle crisi finanziarie che nel medesimo periodo prendevano in ostaggio le economie dei Paesi vicini. Il risultato è che, analizzando i numeri dell’economia cilena, è piuttosto agevole accostarla ai fondamentali delle economie europee. In particolare, considerando i valori del Pil e i livelli del deficit annuale, che si accosta all’1 per cento senza però lasciarselo alle spalle, e del debito pubblico, circa il 40 per cento della ricchezza che il Paese produce ogni anno, non risulta scandaloso riflettere sul fatto che almeno sul versante economico il profilo del Cile risulta più vicino all’Europa che al resto dell’America Latina.


Fonte: EIU
Le ragioni dei successi dell’economia cilena
L’eccezionalità delle performance realizzate nell’ultimo decennio dall’economia cilena, in realtà esaltate con eccessiva facilità dal management fedele all’ortodossia del liberismo mondiale, è stata spiegata ricorrendo a una ricetta piuttosto varia e affatto univoca. Innanzitutto, si sottolinea sovente la scelta originale del modello collegato al libero mercato effettuata dalle classi dirigenti cilene con almeno dieci anni d’anticipo rispetto agli altri Paesi dell’area latino-americana. Peraltro, tale scelta ha alimentato anche delle criticità e dei contrasti nell’ambito delle relazioni diplomatiche del Cile con gli Stati vicini. Infatti le riforme interne sono state accompagnate dalla sottoscrizione di accordi di libero scambio con gli Stati Uniti e con l’Europa, suscitando le reazioni negative della maggioranza delle cancellerie latino-americane. In particolare l’orientamento del Cile sui mercati è stato interpretato in modo eccessivamente favorevole in riferimento ai processi e alle regole della globalizzazione che ancor oggi da alcuni Paesi come, per esempio, il Brasile, l’Argentina e il Venezuela, è percepita come la causa principale dei ritardi delle loro economie e all’origine di una quota rilevante dei loro squilibri commerciali e finanziari. Naturalmente, la tempestiva scelta pro-market del Cile è associata anche all’affermazione, all’interno del perimetro nazionale, di salde istituzioni come, per esempio, la Banca Centrale che, nei periodi più critici, si sono sempre rivelate autonome e competenti nelle loro decisioni a differenza di quanto accaduto in passato nei Paesi vicini.
Dietro l’insolito abbraccio con Pechino domina il "business stupid"
Il profilo favorevole dell’economia cilena ha suscitato recentemente le attenzioni della locomotiva cinese. Infatti, nel quadro delle relazioni commerciali tra i due Paesi, oramai la Cina ha assunto un ruolo chiave, in particolare sul mercato del rame di cui il Cile è uno dei principali esportatori mondiali. In tale settore, Pechino ha scavalcato perfino Washington sul podio di partner privilegiato e di maggior importatore del rame e dei minerali cileni. In realtà, l’insolito abbraccio tra Pechino e il Paese sudamericano è facilmente spiegabile. La Cina è affamata di materie prime, di prodotti agricoli e di risorse energetiche tutti fattori indispensabili per sostenere lo sviluppo della sua muscolare economia. Il Cile, come il resto del continente latino-americano, offre esattamente ciò che la Cina domanda, soprattutto risorse minerarie e prodotti agricoli a basso costo e di ottima qualità.
Limiti e ombre del modello cileno
I dubbi e le perplessità sul modello di sviluppo dell’economia cilena sono piuttosto evidenti soprattutto se si analizza la composizione delle sue maggiori direttrici. Innanzitutto, è un sistema eccessivamente sbilanciato sul versate dell’export che costituisce 1/3 del Pil cileno e alimenta almeno il 30 per cento delle entrate annuali disponibili nel perimetro delle finanze pubbliche del Paese. Ciò determina una dipendenza smisurata dall’estero e dalla capacità degli operatori economici internazionali di acquistare i prodotti del made in Chile. Naturalmente in questo contesto ogni crisi internazionale e qualsiasi rallentamento dei flussi finanziari globali hanno come effetto immediato di deprimere e contagiare l’economia cilena, ritardandone e indebolendone i ritmi di crescita. Un esempio classico è quello relativo all’istituzione di fondi pensione privati legati all’andamento dei listini azionari. In passato i crolli ripetuti delle maggiori Borse mondiali hanno avuto come effetto l’inabissarsi dei valori di questi fondi con il risultato che, per migliaia di lavoratori cileni, il pensionamento è stato vissuto come una sorta di incubo alimentato dalle perdite subìte dai rispettivi risparmi immobilizzati nei fondi. Naturalmente, oltre alla dipendenza dall’export e all’apertura forse eccessiva verso i mercati internazionali, un terzo punto di debolezza è riconducibile alla forte presenza dei capitali stranieri all’interno di un’economia nazionale che non abbonda di risorse finanziarie proprie. Oggi soltanto gli investimenti esteri diretti costituiscono una quota pari al 20 per cento del Pil. Questo significa che un’eventuale contrazione nei flussi in entrata determinerà immediate e serie ripercussioni sull’intero sistema produttivo che, nonostante l’affidabilità delle istituzioni locali, sarà difficile mitigare e ricondurre sotto controllo.

* Media degli Investimenti esteri diretti attratti dall’economia cilena nel periodo 1985-95 e nella fase temporale più recente che si apre nel 2000 e termina nel 2004. Fonte: Unctad (i numeri riportati nel grafico sono espressi in milioni di dollari).
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