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Dal mondo

Usa: in arrivo la stretta "soft"
sui profitti parcheggiati offshore

La nuova norma, annunciata come una regolamentazione rigorosa senza falle, concede poco alla severità

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Annunciata come una norma-tagliola che avrebbe finalmente arrestato la migrazione dei capitali delle grandi multinazionali verso sponde contabili offshore, la legge, ridisegnata dal Dipartimento del Tesoro Usa in questi giorni, non sembra affatto rispondere alle aspettative che aveva suscitato, fin dall’apertura dei lavori nel mese di aprile. In pratica, il quadro che emerge è sintetizzato da un generale ammorbidimento dell’intero pacchetto contenente le nuove regole fiscal-finanziarie finalizzate a prevenire, o impedire se necessario, che le grandi aziende e gruppi con volumi d’affari transnazionali spostino indisturbate i loro profitti offshore presso giurisdizioni a bassa tassazione e con un elevato grado di riservatezza, cosiddetti paradisi fiscali.
 
Un limite all’abuso nel ricorso ai presiti infra-gruppo - Le misure, che prima d’essere approvate in via definitiva devono superare il vaglio del Congresso, hanno lo scopo di limitare o comunque disciplinare i prestiti tra società controllate dalla stessa azienda-madre. Si tratta, infatti, di operazioni spesso irrilevanti sotto il profilo economico che però possono creare flussi di reddito ingenti invariabilmente indirizzati verso giurisdizioni offshore con il corollario di pagamenti di cospicui interessi sempre infragruppo e largamente deducibili, grazie alle norme attualmente in vigore, dalle imposte dovute negli Stati Uniti.
 
Sorpresa, il cash pooling esce dalla nuova norma – Si tratta quindi di deduzioni eccessivamente generose che, di fatto, consentono da decenni ai grandi gruppi Usa di livellare verso il basso le imposte annuali da pagare, tanto che spesso l’aliquota effettiva applicata si riduce ad un mero 21 per cento, al di sotto del livello di tassazione medio riservato al contribuente individuale con redditi medi. Ma la sorpresa è stata grande quando dalla lettura del testo definitivo consegnato dai funzionari del Tesoro Usa al Congresso s’è appreso dell’inserimento al fotofinish d’una lieve appendice normativa che, in due righe, consente d’esentare dalla norma  il "cash pooling", espressione mutuata dall’inglese per definire l’accentramento, virtuale o effettivo, di tutte le risorse finanziarie, flussi in entrata e in uscita, di un gruppo presso un’unica società. L’obiettivo è quello di ottenere una migliore gestione della tesoreria aziendale. Grazie a questa pratica, infatti, si annullano o almeno si riducono le potenziali diseconomie derivanti dalla coesistenza di saldi, attivi in capo ad alcune società del gruppo e passivi in capo ad altre. Di fatto, sotto il profilo meramente tecnico e operativo il cash pooling consiste quindi nell’accentrare i saldi attivi e passivi presso un unico conto corrente. Generalmente, ne apre uno la stessa società capogruppo e su quello confluiscono i saldi giornalieri e settimanali dei conti correnti delle singole società del gruppo. La capogruppo e le altre società stipulano a loro volta appositi contratti per regolamentare e giustificare i movimenti di liquidità dai conti correnti delle singole società a quello accentrato. Una pratica largamente diffusa che spesso s’è rivelata “il cavallo di troia” attraverso cui spacchettare e riannodare i ricavi di grandi aziende su basi il più possibile favorevoli in termini di risparmio fiscale. Ma non basta. Infatti, oltre all’esclusione del cash pooling dalle nuove misure di controllo, numerose sono le deroghe introdotte per favorire alcuni comparti imprenditoriali storicamente legati all’offshore tra cui le società finanziarie e assicurative. In realtà, tali soggetti sono già limitati da alcune regole specifiche nella loro capacità di emettere debito tra le controllate.
 
Dubbi anche sull’impatto delle nuove regole sulla pratica del “tax inversion” – Le misure fiscali elaborate di recente dovrebbero anche rispondere alla domanda, diffusa, di frenare il ricorso all’inversione fiscale, o spogliarello di guadagni e profitti, pratica diffusa grazie alla quale le multinazionali usano spostare i loro profitti in Paesi a fiscalità privilegiata. In pratica, utilizzando questa strategia una grande azienda Usa può ricollocare la propria residenza fiscale in giurisdizioni offshore avviando una fusione di gruppo con una società estera già presente sul territorio a fiscalità privilegiata prescelto. Di recente, più di 20 aziende di rilievo hanno intrapreso e concluso simili pratiche d’inversione fiscale dal 2012 ad oggi, senza che il Congresso riuscisse a porvi un argine, un freno normativo sostanziale. Ora, secondo quanto previsto dalle misure scritte dal Tesoro Usa, la norma nel suo complesso dovrebbe avere un effetto diretto anche sul fenomeno del tax inversion, e questo  perché nuovi limiti e condizioni verrebbero applicati anche ai prestiti intra-aziendali che non danno luogo a nuovi investimenti netti negli Stati Uniti. Ciò potrebbe rendere più complesso il ricorso all’inversione fiscale ma, di certo, non potrebbe determinarne lo stop definitivo come da molte parti e da molte voci richiesto. Il risultato più probabile è un ulteriore estensione del danno provocato dall’erosione fiscale originata dalla scivolosità normativa con cui è possibile predefinire i bilanci delle multinazionali.
 
Dai regolamenti più potere a Tesoro e Agenzia delle Entrate Usa - Le regole in visione al Congresso attribuiscono ai funzionari del Tesoro e dell'Internal Revenue Service, l’Amministrazione finanziaria statunitense, l'autorità per trattare alcune operazioni di debito tra parti correlate come mere occasioni per produrre guadagni ulteriori ai danni del fisco federale. Tale potestà d’intervento, analisi e controllo permetterebbe d’intervenire ed eliminare i benefici fiscali connessi con i prestiti. Almeno dalla lettura del testo. In realtà, come annunciato dalla Camera di Commercio Usa e dalle maggiori lobby pro-business statunitensi, deputati e senatori saranno chiamati nei prossimi mesi a riscrivere proprio questo punto della norma, allo scopo di ridurre il potere d’intervento riconosciuto sia al Tesoro sia al Fisco Usa, con buona pace di coloro che ambirebbero alla chiusura totale delle autostrade che conducono all’offshore.
 
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