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Dal mondo

Usa, dietro la marea nera si cela l'ombra dell'offshore

Il greggio fuoriesce e dalla piattaforma spuntano, altrettanto inaspettate, alcune falle nei registri contabili

deepwater horizon
Le coste della Louisiana continuano, progressivamente, a mutare il loro profilo naturale. A oggi, infatti, il termometro che misura il diffondersi della marea nera indica in 12mila e in 19mila l'intervallo massimo e minimo d'espulsione dei barili di petrolio che fuoriescono, ogni 24 ore, dalla falla aperta lungo il condotto che aspira il greggio dal pozzo. La macchia nera, quindi, s'estende e guadagna terreno mentre dai registri contabili della piattaforma mobile di trivellazione Deepwater Horizon spunta la voce "paradiso fiscale".

Parola ai tecnici di Obama e ai detective del fisco Usa - Infatti, la novità delle ultime ore riguarda la stretta sui controlli, a 360gradi, richiesti e ufficialmente avviati dal presidente Usa Obama. Non si tratta soltanto di tecnici ed esperti del settore petrolifero e, in particolare, del comparto legato alle trivellazioni. Piuttosto, agli esperti di settore si sono aggiunti oramai da giorni anche i detective del fisco federale il cui compito è di dare un senso al fatto, peraltro evidente, che la Deepwater Horizon non compare né all'interno dei registri britannici né tra gli elenchi statunitensi, piuttosto il vessillo che la contraddistingue e identifica è quello d'un paradiso fiscale ben conosciuto agli ispettori dell'Amministrazione fiscale statunitense, cioè le Isole Marshall.

Isole Marshall, Panama e Liberia - Le ragioni alla base della scelta d'una giurisdizione a bassa tassazione, apparentemente spersa tra le acque che separano l'Australia dalle Hawaii, si nascondono sotto l'assenza, generale, d'una imposta sulle società, cui si sommano una duplice scarsità sia nei controlli richiesti alle imbarcazioni sia in tema di trasferimento dati. In pratica, è sufficiente richiedere l'iscrizione ai registri nautici, versare un quantum predefinito, e modesto, per l'ottenimento e per il mantenimento delle licenze necessarie e dei nulla-osta e, per finire, mantenere all'interno dei confini della giurisdizione un punto predefinito di contatto, naturalmente, non una sede a cinque stelle. In questo modo, i controlli standard e le certificazione di valutazione dei rischi connessi all'uso delle imbarcazioni si dimezzano, in certi casi proprio evaporano e, nel contempo, anche le indicazioni riguardanti il personale assunto, la sua preparazione e la specificità sui contratti siglati perdono di rilevanza. In definitiva è questo, anche più del risparmio fiscale, che oggi continua ad attrarre sui registri nautici di Paesi come Panama e la Liberia, oltre che le Isole Marshall, decine di miglia di imbarcazioni, vascelli e piattaforme mobili connesse a multinazionali che operano sui mercati internazionali e, in particolare, nei settori connessi all'estrazione del greggio e alle trivellazioni a largo delle coste.

I numeri della BP - In merito al profilo della British Petroleum, che si tratti d'una perla dell'oro nero è fuor di dubbio. Osservando, infatti, l'ultimo rapporto tracciato dall'Agenzia Onu che si occupa d'investimenti e flussi commerciali, nel 2008, l'anno della crisi, questo era il ricco menù contabile e finanziario esibito dalla BP: cominciamo dai patrimoni, pari a circa 230 miliardi di dollari, naturalmente ben distribuiti in 80 Paesi, molti dei quali centri rinomati dell'offshore fiscale. A seguire, vendite complessive per ricavi lordi intorno ai 365 miliardi di dollari e un numero di occupati che segnalava, in coincidenza con l'anno d'esordio della crisi, 92mila occupati, di cui quasi il 90% residenti in Paesi esteri rispetto al territorio britannico. Insomma, i circa 750 milioni di dollari offerti inizialmente dalla BP in pegno a scopo riparazioni sembra davvero una modesta elemosina, come rivendicato dallo stesso presidente Usa Obama, se raffrontato con i patrimoni e le disponibilità reali che la BP, un colosso del petrolio, gestisce.
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