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Dal mondo

Viaggio nella fiscalità africana.
Stime e dati dalle Nazioni Unite (1)

Per raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile fissati per il 2030, più digitale e lotta a elusione ed evasione

Particolare copertina del report

Ogni anno, per 5 anni, 99 miliardi di dollari in più per le casse erariali dei Paesi africani grazie al solo miglioramento della raccolta complessiva delle imposte. Non un sogno, ma una possibile road map per l’Africa, secondo l’ultimo report del United Nations Economic Commission for Africa (Uneca), la commissione regionale dell’Onu dedicata all’Africa che riunisce 54 Paesi, presentato a Marrakesh lo scorso 23 marzo. In 169 pagine, l’Economic Report on Africa 2019 traccia una panoramica dello stato di salute delle finanze dei Paesi presenti nell’area, individua le tendenze principali di fiscal policy realizzate negli ultimi anni e cerca di quantificare i benefici che il continente potrebbe acquisire se mediamente i Paesi che lo compongono rafforzassero la propria capacità di raccogliere le imposte. La tesi di fondo è che per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile tracciati da qui al 2030 in seno alle Nazioni Unite nel 2015 (2030 Agenda for Sustainable Development), gli Stati africani devono incrementare nel complesso l’efficienza dei propri sistemi tributari. La buona notizia è che, secondo le stime dell’Uneca, lavorando su più fronti, dalla digitalizzazione dei processi alla lotta a fenomeni elusivi delle grandi corporation così come a una maggiore capacità di innervare di legalità settori attualmente caratterizzati da una forte economia sommersa, i Paesi del continente possono concretamente guadagnare dal 12 al 20% di Pil in più in maggiori entrate pubbliche.

La fotografia fiscale del continente africano: la pressione fiscale
Per raccontare i contorni della fiscalità africana il report sceglie di usare prima di tutto la pressione fiscale. Negli ultimi vent’anni in Africa il rapporto del gettito fiscale su Pil si è sempre mantenuto mediamente al di sotto del 20%. Contrariamente alla percezione negativa connessa all’espressione “pressione fiscale”, in realtà fino a certi livelli la crescita di questo valore è un indicatore di buona salute per i conti pubblici, soprattutto per Paesi in cui le entrate pubbliche sono fortemente dipendenti dallo sfruttamento delle risorse naturali e quindi all’andamento dei prezzi di mercato. Nel 2018 le entrate provenienti dall’imposizione tributaria si sono attestate al 14,6% del prodotto interno lordo: per dare un termine di paragone, il tasso dell’area Ocse è stato del 34,2% nel 2017 e nei Paesi più ricchi va ben oltre il 40%. L’Uneca ragiona in termini pratici quando sostiene che per raggiungere gli obiettivi di sviluppo tracciati da qui al 2030 sarebbe necessario arrivare a una pressione fiscale almeno pari al 20% come media per tutto il continente, ma da quando la meta fu sfiorata nel 2005 (19,9%), l’indicatore percentuale della raccolta delle imposte ha continuato a calare anziché a salire. Ovviamente le differenze in un continente così esteso sono notevoli: per esempio, su un campione di 19 Stati, la forbice registrata nel 2018 va dal 34% della Namibia e 31% del minuscolo Swaziland agli esigui, quasi nulli, 6 e 7% di Ciad e Sudan.

L’altro indicatore che racconta il fisco: il tax gap
Se l’indicatore “pressione fiscale” restituisce l’immagine di un fisco insufficiente a coprire le necessità del continente in termini di spesa pubblica, ribaltando il discorso e andando a guardare il contraltare della raccolta delle imposte, gli ammanchi delle entrate tributarie ovvero il tax gap, il panorama non cambia molto.  Per esempio, su soli 24 Paesi di cui sono già disponibili i dati del 2018, nelle casse di metà dei Paesi manca all’appello più del 50% dell’Imposta sul valore aggiunto potenzialmente acquisibile. Il buco arriva all’86,1% dello Swaziland e al 92,2% della Repubblica centrafricana. Le performance migliori, seppure una platea così limitata di Paesi, sono Capo Verde (15,1%) e il Sud Africa (13,3%).

Le riforme fiscali africane
Da riconoscere è che dal 2000 a oggi la morfologia dei sistemi tributari africani è molto cambiata attraverso innumerevoli riforme fiscali adottate dai singoli stati, sintomo del fatto che i governi hanno iniziato ad agire sulla leva fiscale nell’implementazione delle proprie politiche pubbliche. A questa diffusa sensibilità per il fisco il report attribuisce il merito del fatto che in Africa il numero di Paesi con una pressione fiscale sotto il 15% si è più che dimezzato in poco più di 15 anni, passando da 31 a 14 dal 2000 al 2016, mentre quello di chi riesce a raccogliere un gettito di imposte oltre il 20% del prodotto interno lordo è cresciuto da 8 a11. Molto si potrebbe fare ancora agendo su diversi aspetti legati al fisco, fino ad arrivare alla prospettiva di 99 miliardi in più ogni anno nelle casse erariali: l’uso della digitalizzazione per migliorare servizi e pagamenti delle imposte, la lotta ai fenomeni elusivi, una maggiore efficienza e presenza delle amministrazioni fiscali sul territorio.

1. continua

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