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Giurisprudenza

Accertamenti bancari blindati.La perizia penale serve a poco

La Corte ribadisce il proprio orientamento, in ordine all’onere probatorio posto a capo del contribuente

Non serve, al contribuente sottoposto ad accertamento bancario, l’allegazione della perizia favorevole disposta nel processo penale. Con l’ordinanza n. 22636 dell’8 novembre 2010, la Cassazione torna così a occuparsi della legittimità degli accertamenti tributari fondati sulle movimentazioni bancarie, in cui, com’è noto, opera il principio dell’inversione dell’onere della prova a carico del soggetto accertato.

I fatti di causa
Un ufficio finanziario, sulla base delle indagini della Guardia di finanza sui conti correnti bancari intestati a un contribuente e al coniuge, emetteva un avviso di accertamento Iva (ai sensi dell’articolo 51, secondo comma, n. 2, del Dpr 633/1972), in quanto, in assenza di idonea documentazione probatoria, le movimentazioni degli stessi erano state considerate alla stregua di ricavi non contabilizzati e di costi non documentati.
L’accertamento veniva annullato dai giudici di merito, sia di primo grado sia di appello, nella considerazione che il ricorrente aveva prodotto elementi probatori idonei a vincere la presunzione iuris tantum prevista, dal citato articolo 51.
 
L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso in Cassazione lamentando, da parte dei giudici di appello, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 51 del Dpr Iva, laddove gli stessi avevano valutato la perizia d’ufficio - disposta nel processo penale e volta a verificare unicamente la configurabilità di illeciti penali - prova idonea e sufficiente, ancorché prodotta nel processo tributario, per il contribuente a contrastare la presunzione connessa all’ipotesi di rettifica fondata sugli accertamenti bancari.
 
La pronuncia della Cassazione
La Corte ha accolto il ricorso, richiamando un proprio orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, in ordine all’onere probatorio posto a capo del contribuente. In generale, i giudici di legittimità hanno ribadito che, in tema di accertamento Iva, la presunzione stabilita dall’articolo 51 - secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo articolo 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili - “…ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti…”.

Tale presunzione, prosegue la Corte, “…può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili: la prova che il contribuente è tenuto a dare della non riferibilità ad operazioni imponibili deve essere specifica e riguardare analiticamente i singoli movimenti bancari, tale cioè da dimostrare che ciascuna delle operazioni effettuate è estranea a fatti imponibili (Cass. nn. 28324/2005, 1739/2007, 9146/2010)”.  

Entrando poi nel merito, i giudici di legittimità hanno ritenuto la sentenza di appello non conforme ai principi appena enunciati - soprattutto alla luce della differente finalità del processo penale, rispetto a quello tributario, e dell’eterogeneità del relativo regime della prova - nella parte in cui ha ritenuto che “…l’onere probatorio posto a carico del contribuente sarebbe stato da questo pienamente adempiuto con la produzione di copia della perizia disposta in sede penale, in quanto: da essa era emerso non esservi prova che gli importi rilevati dai movimenti sui conti bancari costituiscano maggiori corrispettivi aziendali rispetto a quelli registrati nel conto cassa…”.   In altri termini, la perizia penale evidenzia innanzitutto che la Guardia di finanza non ha rilevato sulle movimentazioni bancarie “…uscite a titolo personale o dei pagamenti in nero tanto da far ritenere che i movimenti predetti (entrate e uscite)…siano stati utilizzati per alimentare spese personali (ad es. immobili auto et similia tali da costituire utilizzo delle somme presuntivamente incassate) o acquisti in nero…”, concludendo che le entità delle evasioni accertate nei singoli anni non trovavano riscontro nell’accrescimento di ricchezza rilevabile dalle situazioni bancarie del soggetto accertato.  


Considerazioni finali
Con l’ordinanza 22636/2010 la Cassazione prosegue sulla linea già tracciata da tempo, e spesso ribadita negli ultimi mesi, in materia di accertamenti fiscali basati sulle movimentazione dei conti correnti bancari, intestati al contribuente e/o a suoi familiari.   Tra le ultime e più significative pronunce, citiamo la n. 16062 dello scorso 7 luglio 2010, nella quale la Cassazione, nell’interpretare l’articolo 51 del Dpr IVA, afferma che devono essere considerati “…ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale (Cass. 5 dicembre 2007 n. 25365; 5 ottobre 2007 n. 20858; 27 luglio 2007 n. 16720; 13 giugno 2007 n. 13819; 21 marzo 2007 n. 6743; 8 settembre 2006 n. 19330; 23 giungo 2006 n. 14675; 9 settembre 2005 n. 18016; 7267/02; 9103/01)”.  

Infine, sempre la pronuncia in argomento, ci ricorda che, nell’attuale sistema processuale nazionale, vige il principio del “doppio binario”, in quanto non esiste più alcun rapporto di dipendenza tra il processo penale e quello tributario, con la conseguenza che il giudizio tributario non può essere sospeso per la contemporanea pendenza di un contenzioso penale, seppur abbiano ad oggetto gli stessi fatti dell’accertamento dai quali dipende la definizione del giudizio tributario medesimo (cfr ex multis, Cassazione, n. 26403/2005, n. 10945/2005 e n. 10352/2003).  

In particolare, nella sentenza n. 27919 del 30 dicembre 2009, la Cassazione ribadisce il principio secondo cui “…l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna, a causa del mutato quadro normativo, quindi, nessuna autorità di cosa giudicata può attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente”.Ne consegue che “…il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice posta in essere dall’Amministrazione finanziaria, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti deve, in ogni caso, vetrificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare (Cass., 5^,10945/2005; 19481/2004; 9109, 6337, 3961/2002…”.

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