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Giurisprudenza

Accertamento analitico induttivo:
i conti “in nero” lo legittimano

Qualunque documento, in realtà, comprese le annotazioni e i brogliacci, può costituire la base per una presunzione idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti di causa

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La notifica dell’autorizzazione all'accesso in uno studio professionale assolve il dovere informativo di cui all’articolo 12 dello Statuto del contribuente. Tale previsione, peraltro, non deve pregiudicare l'attività di indagine, dovendosi sempre trovare un equilibrio fra le opposte esigenze, a tutela del contribuente e al prosieguo dell'ispezione. Le annotazioni contabili rinvenute sulle cartelline delle pratiche dei clienti costituiscono un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'articolo 39 del Dpr. n. 600/1973. Tale contabilità “in nero" legittima, di per sé, il ricorso all'accertamento induttivo, incombendo al contribuente l'onere di fornire la prova contraria

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 1299 del 22 gennaio 2020, ha affermato rilevanti considerazioni, risolvendo un contenzioso relativo a un accertamento nei confronti di un professionista, con particolare riferimento a quali fossero i presupposti per procedere legittimamente ad accertamento analitico induttivo.
Nel caso, il contribuente, esercente la professione di avvocato, era stato soggetto a ispezione fiscale presso il suo studio, conclusasi con redazione e notifica del Pvc. Ne seguiva l’emissione di un accertamento per maggiori importi incassati e non fatturati, come dedotti, con procedimento analitico induttivo, in base a documentazione rinvenuta presso lo studio e ai questionari sottoposti ai clienti.
Avverso il provvedimento impositivo il contribuente proponeva ricorso, sostenendo la violazione degli obblighi informativi di cui all'articolo 12, legge n. 212/2000 e, nel merito, l'inidoneità probatoria degli elementi indiziari portati a sostegno dell'accertamento.
La Ctp riduceva l'importo accertato, calcolando forfettariamente un 30% di spese da scomputare dall'imponibile.
L’Agenzia delle entrate proponeva appello relativamente a questo capo di sentenza, mentre il contribuente presentava appello incidentale sugli altri capi, rispetto ai quali era risultato soccombente.

La Ctr, accogliendo l’appello dell’ufficio, ne confermava integralmente l’operato e annullava la riduzione già operata dal giudice di primo grado.

A questo punto il contribuente ricorreva per cassazione, deducendo la violazione dell'articolo12, legge n. 212/2000, per la mancata comunicazione preventiva delle ragioni che giustificavano la verifica presso lo studio professionale e da cui, a suo avviso, scaturiva l'inutilizzabilità delle prove e la nullità dell'accertamento che sulle stesse si fondava.
Con un secondo motivo di impugnazione, inoltre, censurava la pronuncia perché la Ctr non aveva ritenuto ostensibile il programma annuale di ispezioni della Gdf, che il contribuente, invece, aveva chiesto di vedere, al fine di poter spiegare le proprie difese.
Il ricorrente eccepiva, poi, l’omessa motivazione sugli argomenti dell’appello incidentale, relativi alla valutazione delle prove indiziarie consistenti nelle annotazioni contabili rinvenute sulle cartelline delle pratiche dei clienti.
E, con un ultimo motivo di ricorso, lamentava infine la illogicità della motivazione, laddove aveva riformato la riduzione forfettaria del 30% dell'accertato, a titolo di spese e anticipazioni non imponibili.

Secondo la suprema Corte il ricorso era infondato.
Quanto al primo motivo, i giudici di legittimità evidenziano che dagli atti risultava che l'autorizzazione all'accesso, adottata dal comandate di reparto, fosse stata notificata su conforme provvedimento della procura della Repubblica, e che l'attività ispettiva fosse stata motivata come verifica sostanziale a carattere generale. Tale circostanza, secondo la Cassazione, assolveva il dovere di cui all'articolo 12, laddove, peraltro, aggiungono i giudici, il dovere informativo non deve pregiudicare l'attività di indagine (consistita, nella specie, nella sottoposizione di questionari ai clienti del professionista), dovendosi trovare un equilibrio fra le opposte esigenze, a tutela del contribuente e al prosieguo dell'ispezione. Il motivo era quindi infondato.

Sulla seconda censura, rileva la Corte, nell'esposizione del motivo, mancava l'illustrazione della decisività del documento richiesto (il programma delle ispezioni) e non ottenuto, laddove la Cassazione ha comunque più volte affermato che il mancato esame di un documento può essere denunciato solo nel caso in cui determini l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice. Il motivo era dunque inammissibile.

In riferimento, poi, al terzo motivo di impugnazione, i giudici di legittimità evidenziano che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la contabilità “in nero", costituita da appunti personali e informazioni dell'imprenditore o del professionista, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'articolo 39 del Dpr n. 600/1973, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili, disciplinate dagli articoli 2709 e ss cc, tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d'impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore o del professionista e il risultato economico dell'attività svolta.
Ne consegue, quindi, che la contabilità “in nero", proprio per il suo valore probatorio, legittima, di per sé e a prescindere dalla sussistenza di qualsiasi altro elemento, il ricorso all'accertamento induttivo, incombendo al contribuente l'onere di fornire la prova contraria.
Anche tale motivo era quindi infondato.

Infine, quanto all’ultima censura, relativa alla determinazione forfettaria di componenti negativi, la Cassazione ricorda che l'accertamento induttivo di maggiori ricavi non comporta l'automatico e forfettario riconoscimento degli elementi negativi del reddito, incombendo sul contribuente l'onere di provare la certezza dei costi e la loro inerenza all'attività, per cui le spese e i componenti negativi sono deducibili anche se non risultino dal conto dei profitti e delle perdite, purché siano almeno desumibili dalle scritture contabili, non essendo ammissibile un loro computo forfettario, non giustificato.

In conclusione, l'Amministrazione finanziaria, qualora l'esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione risulti in modo certo e diretto da qualsiasi altro atto e documento in suo possesso, può procedere alla rettifica, indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente.
Qualunque documento o dichiarazione, comprese le annotazioni, i brogliacci e la contabilità “informale”, può costituire, in sostanza, la base per una presunzione idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti di causa, consentendo così l’ingresso nel processo tributario, sotto forma di presunzioni semplici, anche delle prove atipiche (cfr. Cassazione, sentenza n. 14995/2017).
 

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