La vicenda
L’imputato ricorre per cassazione per violazione di legge (articolo 5 del Dlgs 74/2000 in relazione agli articoli 2, 3, 4, e 5 del Dpr 322/1998, testo vigente ratione temporis) e, oltre a sostenere che nella condotta doveva essere escluso il dolo, visto che nel periodo interessato l’imprenditore era detenuto in uno Stato estero, asserisce che il termine per la presentazione delle dichiarazioni fiscali relative al periodo precedente scadeva il 31 ottobre 2002, mentre la sentenza dichiarativa di fallimento era stata pronunciata il 5 dello stesso mese, per cui l’obbligo fiscale incombeva sul curatore fallimentare.
La pronuncia
Tali considerazioni, del resto, sono conformi a normativa, ove si consideri che, in base all’articolo 5, comma 4, del Dpr 322/1998, nei casi di fallimento, le dichiarazioni relative al periodo compreso tra l’inizio del periodo d’imposta e la data della sentenza fallimentare (cosiddetto segmento temporale pre-fallimentare), sono presentate, anche se si tratta di imprese individuali, dal curatore, entro quattro mesi dalla nomina.
Peraltro, occorre considerare che la Suprema corte, proprio di recente (ordinanza 25947/2010), ha affermato che è legittimo e pienamente utilizzabile dal fisco il processo verbale di constatazione sottoscritto dal fallito e non dal curatore, confermando in tal modo l’assunto per cui il contribuente fallito resta comunque soggetto passivo del rapporto tributario.
In altri termini, la giurisprudenza di legittimità ritiene che, in tali vicende, la dichiarazione di fallimento non comporta il venir meno dell’impresa, ma soltanto la perdita della legittimazione sostanziale e processuale del suo titolare, nella cui posizione subentra il curatore fallimentare; di conseguenza, il fallito non smette mai di essere “il soggetto passivo del rapporto tributario”.
Si rileva, al riguardo, che la perdita della legittimazione sostanziale è da intendersi come limitazione della facoltà dispositiva, ma non significa affatto la perdita della titolarità dei rapporti né dal lato attivo né da quello passivo: pertanto, gli atti del procedimento tributario formati in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento del contribuente, ancorché intestati a quest’ultimo, sono opponibili alla curatela, mentre quelli formati in epoca successiva debbono indicare, quale destinataria, l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale e, quale legale rappresentante della stessa, il curatore (Cassazione 12893/2007 e 4235/2006).
Inoltre, la stessa incapacità processuale non è “assoluta” ma soltanto “relativa”, nel senso che il fallimento determina per il fallito la perdita della capacità di stare in giudizio limitatamente ai rapporti nei quali subentra il curatore, per cui il fallito stesso, nonostante lo stato di insolvenza, può ancora agire senza alcuna autorizzazione sia sul punto sostanziale che su quello processuale per far valere i diritti strettamente personali, ovvero i diritti patrimoniali, dei quali si disinteressino gli organi del fallimento.
Dello stesso parere anche l’Amministrazione finanziaria (risoluzione 171/2002), la quale, in una sintesi evolutiva più avanzata, ha sostenuto che il fallito mantiene la soggettività passiva tributaria e la piena titolarità giuridica dei redditi personali, sia quelli attratti al fallimento, sia quelli estranei a esso. Ne consegue che il fallito, per ogni periodo d’imposta, dovrà indicare nella propria dichiarazione sia i redditi personali non attratti al fallimento sia quelli attratti.
In conclusione, va punito per evasione fiscale (articolo 5 del Dlgs 74/2000), ferma restando la decorrenza dei termini prescrittivi, il fallito che non presenta le obbligatorie dichiarazioni reddituali per periodi d’imposta anteriori al fallimento, anche se il fallimento è avvenuto prima della scadenza per la presentazione della dichiarazione.