Una società di costruzioni che ha comprato un terreno edificabile pagando parte dell’acquisto con una somma di danaro e la restante parte tramite cessione in permuta di quattro alloggi da realizzare sull’area acquisita, dovrà applicare l’aliquota Iva ordinaria, pari al 22%, sul valore di permuta delle future unità immobiliari.
Nella fattispecie al vaglio dei giudici della Cassazione, infatti, manca il requisito soggettivo che legittimerebbe la fruizione dell’aliquota Iva al 10% in quanto la parte che ha ceduto il terreno, futura destinataria dei 4 alloggi pattuiti, è una società commerciale, rispetto alla quale la norma non prevede quella tutela abitativa che giustifica l’applicazione dell’Iva ridotta. È la sintesi della sentenza della Cassazione n. 3109/2023.
La società che aveva acquistato il terreno aveva emesso, in relazione al valore delle unità abitative destinate a completare il pagamento dell’area edificabile, una fattura con l’applicazione dell’aliquota Iva ridotta (10%) rilevando che le abitazioni da realizzare sarebbero state “non di lusso” e quindi potevano fruire della misura di favore prevista dal Decreto Iva (n. 127-undecies della Tabella A, Parte III, allegata al Dpr n. 633/1972).
L’ufficio invece aveva emesso un avviso nei confronti della società rilevando a suo carico una violazione degli obblighi di fatturazione.
A seguito delle sentenze di primo e di secondo grado, favorevoli all’amministrazione, la società propone ricorso in Cassazione.
Secondo i giudici di legittimità la sentenza della Ctr deve essere modificata in quanto i giudici sono incorsi in un error in iudicando. Il fatto che i beni all’atto della permuta non esistevano perché non ancora realizzati non osta di per sé all’applicazione dell’aliquota agevolata: la cosa importante è che dal contratto traslativo di permuta emerga con chiarezza la tipologia oggettiva del bene da costruire. Se al termine della costruzione abitativa sussistono caratteristiche differenti rispetto a quelle che consentono di fruire dell’Iva agevolata, l’Ufficio può chiaramente procedere alle rettifiche.
Questi rilievi mossi dalla Cassazione, tuttavia, non sono sufficienti a cassare la pronuncia di secondo grado, potendosi semplicemente modificare la motivazione della sentenza.
L’aspetto essenziale e decisivo a fini della soluzione della controversia, evidenziato dalla Suprema corte, è invece la qualità soggettiva del cessionario.
Il legislatore, sottolinea la Cassazione, ha previsto che l’aliquota Iva ridotta si può applicare solo nel caso in cui l’unità immobiliare, oltre a rientrare nelle abitazioni non di lusso, sia effettivamente utilizzata dall'acquirente per soddisfare esigenze abitative. La norma che prevede l’Iva al 10%, in sintesi, ha lo scopo di tutelare il diritto all’abitazione e non le finalità commerciali perseguite dalle imprese (sul punto vedi anche Cassazione n. 28578/2021).
Appare quindi priva di significato la circostanza, rilevata dalla società istante, che le case, una volta terminate, sarebbero rientrate nella categoria di abitazioni “non di lusso”. Nel caso in esame la cessionaria delle unità immobiliari non può fruire dell’Iva ridotta in quanto è una società commerciale per la quale non è prevista alcuna tutela abitativa.
Secondo la Corte di cassazione, in conclusione, la fattura contestata avrebbe dovuto essere assoggettata ad aliquota Iva ordinaria al 22% e non a quella agevolata al 10 per cento.