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Giurisprudenza

Adesione al condono? Partita chiusaper i debiti, ma non per i crediti

Un rimborso Iva “sospetto” non trova la strada spianata soltanto per effetto del consenso alla sanatoria

Il condono tombale del 2002 non esclude il potere del Fisco di contestare il credito. Se, a fronte di una richiesta di rimborso Iva, l’ufficio ritenga inesistente il diritto a conseguirlo, non è tenuto – per automatico effetto del condono – a procedere al rimborso, né gli è inibito l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto. È il principio espresso dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 5586 dell’8 marzo, con la quale ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria ribaltando completamente i giudizi di merito.
 
La vicenda
A seguito di notifica a una società di capitali di un avviso di accertamento Iva, conseguente a verifica della Guardia di Finanza, nella quale si contestava l’effettuazione di operazioni fittizie, il relativo ricorso veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale. La situazione processuale, così determinata, non veniva a mutare per effetto del proposto appello, in ragione del fatto che la Commissione tributaria regionale confermava l’annullamento del diniego dell’ufficio a un preteso rimborso Iva avanzato dalla società contribuente (in particolare la curatela dell’impresa ormai fallita aveva sostenuto che in presenza di condono tombale regolare, ex articolo 9 legge 289/2002, il Fisco dovesse automaticamente rimborsare l'imposta, al di là dei sospetti dell'esistenza di fatture false).
 
Il rigetto dell’appello approda in Cassazione, in forza di due motivi con i quali l’ente impositore:
  1. deduce la violazione di legge, censurando l’affermazione secondo cui, ai sensi dei commi 9 e 10 dell’articolo 9 della legge 289/2002, l’Amministrazione non potrebbe contestare i crediti indicati nella dichiarazione di condono tombale
  2. censura la sentenza di merito, sotto il profilo del vizio di motivazione, quanto all’affermazione secondo la quale l’avviso di accertamento impugnato sarebbe illegittimo a causa della mancata allegazione dei documenti che giustificano i presupposti di fatto o le ragioni giuridiche per ritenere inesistenti le fatture emesse dalla società.
 
Profilo normativo
Il richiamato articolo 9 stabiliva che la definizione automatica degli anni di imposta pregressi, limitatamente a ciascuna annualità, rendeva definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente o all'applicabilità di esclusioni. Aggiungeva, poi, che la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell'Iva nonché dell'Irap.  
Il comma 10, alla lettera c), stabiliva che il perfezionamento della procedura di definitività del rapporto pendente valeva anche nell’ipotesi di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti (il che comporta, tra l’altro, l'esclusione della punibilità per i reati tributari di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, e 10 del Dlgs 74/2000).
 
La decisione sul rimborso in presenza di condono
La Suprema corte si è trovata a decidere se, a norma dell’articolo 9, comma 9, della legge 289/2002, la definizione automatica rende risolutiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione, non modificando l'importo dei rimborsi e dei crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini, in questo caso, dell'Iva.
 
Il Collegio ha ritenuto il ricorso meritevole di accoglimento nella duplice articolazione delle censure che investono sia la disciplina normativa applicabile alla fattispecie sia la struttura motivazionale della sentenza, e osserva, a tal fine, che la giurisprudenza di legittimità ha già affermato che il condono fiscale, se da un lato comporta che nessuna modifica dei rapporti originari di rimborsi o crediti possa essere determinata dalla definizione automatica, dall’altro non sottrae all’ufficio il potere di contestare il credito. In altri termini, il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente può vantare nei confronti del Fisco, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'ufficio (Cassazione, sentenza n. 375/2009).
 
Inoltre, la Cassazione riconferma l’assunto che, in generale, nell'ipotesi di operazioni inesistenti, in relazione alle quali sia stato chiesto il rimborso dell'Iva – che l'ufficio ha motivo di ritenere in realtà non versata – l'Amministrazione finanziaria non è tenuta, per automatico effetto del condono, a procedere al rimborso, né gli è inibito l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto a conseguirlo.
Tale conclusione, del resto conforme a quanto ritenuto anche dalla Corte costituzionale nell'ordinanza n. 340/2005, non è impedita dalla disposizione, contenuta nella norma invocata, per cui “La definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini ... dell'imposta sul valore aggiunto”. In sostanza, la disposizione recata dall’articolo 9 deve essere interpretata nel senso che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica, ma non in quello di sottrarre all'ufficio il potere di contestare il credito per accertata inesistenza dell'operazione commerciale da cui esso deriverebbe (Cassazione, sentenze nn. 3682/2007, 6504/2007 e 18650/2008).
 
Più specificamente, l’elaborazione giurisprudenziale, del tutto pacifica al riguardo, ha chiarito che la presentazione dell’istanza relativa alla definizione automatica preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità d'imposta definite in via agevolata, ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto. Il condono, infatti, in quanto volto a definire transattivamente la controversia in ordine all'esistenza di tale presupposto, pone il contribuente di fronte a una libera scelta fra trattamenti distinti, quali coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo eventualmente il rimborso delle somme indebitamente pagate, o corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, senza possibilità di riflessi o interferenze con quanto eventualmente già corrisposto in via ordinaria (Cassazione, sentenze nn. 14828/2008, 2701/2008 e 3682/2007).
 
Da ultimo, la Cassazione ha chiarito anche un altro aspetto fondamentale in tema di rimborso Iva dell’eccedenza, questa volta legato alla prescrizione del credito del contribuente, affermando sostanzialmente che l'impugnazione giurisdizionale delle sole "poste" disconosciute dall'ufficio non produce effetti interruttivi e sospensivi su quelle non contestate (sentenza n. 3827/2010).
La ratio di tali conclusioni risiede nel semplice fatto che il condono tombale e il rimborso Iva viaggiano su binari differenti, nel senso che il contribuente non può chiedere all'Amministrazione la restituzione dell'imposta a fronte di un'adesione alla sanatoria del 2002. Tanto più, se la richiesta riguarda operazioni mai poste in essere.
 
La decisione sulle operazioni fraudolente
In riferimento al secondo motivo, la Corte lo ritiene fondato poiché, in materia di Iva, in ipotesi di fatture ritenute relative a operazioni inesistenti, la prassi giurisprudenziale ha stabilito che grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà, non sono state mai poste in essere. Tuttavia, se l’ufficio, così come previsto dall’articolo 54, comma 2, del Dpr 633/1972, fornisce elementi idonei a confermare l'inattendibilità della documentazione aziendale che intende contestare (ad esempio, l’inesistenza delle operazioni documentate con fatture), si ribalterà sul contribuente l’onus probandi (articolo 2697, codice civile) di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni imponibili infirmate (Cassazione, sentenze nn. 15395/2008 e 21953/2007). In virtù dell’inversione legale dell’onere della prova, al contribuente spetterà il compito di attestare la commercialità dell’operazione, intesa cioè come reale passaggio dei beni dal soggetto attivo a quello passivo del rapporto tributario (Cassazione, sentenza n. 18650/2008).
 
Questo il principio generale convalidato dalla Corte di cassazione in materia, segnato peraltro dalla continuità di un profluvio di pronunce nelle quali si è innestato anche il solco interpretativo tracciato dalla Corte costituzionale nella menzionata ordinanza n. 340/2005.
Nella concretezza del caso in esame, considerato che gli elementi indiziari per sostenere la fittizietà delle operazioni emergevano già dall’istruttoria cristallizzata nel verbale di constatazione, conosciuto dalla società sin dalla conclusione della stessa istruttoria per esserle stata consegnata copia, ne discende che nessun ulteriore onere probatorio incombeva sull’ente impositore procedente, spettando invece alla società la prova inversa dell’effettiva esistenza delle operazioni in contestazione. Tuttavia, poiché la prova di estraneità non è stata data, si è venuta a determinare l’inevitabile soccombenza del conribuente.
 
Circa l'incompatibilità tra il condono e il rimborso, dalla sentenza n. 5586/2010 si può trarre l’insegnamento, indirettamente emergente dalla motivazione, che la finalità della sanatoria, in particolare nella forma automatica appuntata nell'articolo 9 della legge 289/2002, era quella di chiudere la partita con l’Erario per propri debiti ma non per i crediti. In caso contrario si sarebbe arrivati ad assentire un sindacato (in)teso a sostenere che l'effetto sanante del condono si sarebbe verificato anche su somme a credito inesistenti in quanto frutto di fatture false, facenti scudo a operazioni mai poste in essere, ma dovute al contribuente in nome della "definitività" dell’istanza prodotta.
 
Per la Cassazione, legittimare le tesi difensive del contribuente, avrebbe aperto a una seconda funzione del condono che, oltre a quella di sanare i debiti, avrebbe finito anche per cristallizzare i crediti vantati nei confronti dell’Erario. 
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