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Giurisprudenza

Al club no profit si consuma senza Iva

Esclusa la commercialità per la somministrazione di alimenti e bevande ai soci di un circolo ricreativo

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La suprema Corte di cassazione, confermando l'assunto dei giudici di merito e in coerenza con quanto già disposto nella sentenza n. 280 del 16/01/2004, esclude la commercialità e, di conseguenza, l'imponibilità ai fini Iva dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande, esercitata all'interno dei locali di un ente no-profit e nei confronti dei soli appartenenti alla stessa associazione.
Si è ritenuto che al caso di specie trovi applicazione il disposto dell'articolo 4, commi 4 e 5, del Dpr 633/72, nel senso di escludere dall'imposizione le prestazioni di sevizi e le cessioni di beni che rientrano nei fini istituzionali dell'ente.

In tal senso, è stato affermato che "la gestione del bar all'interno dei locali del circolo è accessoria a quella istituzionale, rappresentando un mezzo per consentire la migliore permanenza dei soci (...) per quanto riguarda i prezzi praticati, uguali a quelli di mercato (...) il surplus accertato rappresenta solo un contributo aggiuntivo alla quota, deliberato dall'associazione al fine di consentire il mantenimento ed il potenziamento delle strutture".
La ratio decidendi, che sorregge questa conclusione, poggia sostanzialmente sul dato, reputato decisivo, dell'accertata sussistenza del nesso di accessorietà e complementarità tra la gestione del bar e il fine istituzionale dell'ente, circostanza questa che esonera l'attività considerata, che di per sé ha carattere commerciale, dal pagamento del tributo controverso.

Orbene, l'articolo 148 del Tuir prevede che non è considerata commerciale l'attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali (indicate nello statuto o nell'atto costitutivo), da associazioni, consorzi e dagli altri enti non commerciali, di tipo associativo.
In tali casi, le somme versate dagli associati o partecipanti, a titolo di quota o contributo associativo, non concorrono a formare il reddito complessivo.
Si considerano, invece, effettuate nell'esercizio di attività commerciali le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, contributi o quote supplementari, compresi i contributi e le quote supplementari, determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali hanno diritto, fatta eccezione unicamente per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica.

Le disposizioni appena richiamate sono integralmente riprodotte, ai fini dell'Iva, nel quarto comma dell'articolo 4 del Dpr 633/72, il quale aggiunge pure, al quinto comma, una presunzione assoluta di commercialità per alcune specifiche attività, di seguito indicate:

  1. cessione di beni nuovi, prodotti per la vendita
  2. somministrazione di pasti
  3. erogazioni di acqua, gas, energia elettrica e vapore
  4. prestazioni alberghiere, di alloggio, di trasporto e di deposito
  5. prestazioni di servizi portuali e aeroportuali
  6. prestazioni di servizi effettuate nell'attività di gestione di spacci aziendali e mense, di gestioni di fiere ed esposizioni a carattere commerciale, di pubblicità commerciale e di telecomunicazioni e radiodiffusioni circolari
  7. prestazioni di tenuta e conservazione delle scritture contabili e di predisposizione delle dichiarazioni dei redditi rese ai propri associati (articolo 78, comma 8, legge 413/91)
  8. prestazioni corrispondenti a quelle rese dai centri di assistenza fiscale, rientranti tra le finalità istituzionali delle stesse, in quanto richieste dall'associato, per ottemperare agli obblighi di legge derivanti dall'esercizio dell'attività (articolo 12, legge 146/98).

Quindi, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l'attività contestata è imputabile in modo diretto a quella istituzionale e non è da annoverarsi tra quelle di spaccio, che va riferita unicamente al "locale adibito a vendita di generi alimentari, bevande o generi di conforto".

La soluzione prospettata stimola alcune considerazioni in merito sia alla valutazione del nesso di accessorietà alle attività istituzionali, sia alla lettura dell'insieme sistematico dello stesso articolo 4 del Dpr 633/72.
E infatti, quando il legislatore ha previsto la non commercialità per le attività istituzionali e per quelle "effettuate in conformità delle attività istituzionali",
dietro il pagamento di corrispettivi specifici e differenziati, non intendeva estendere l'esenzione a tutte le attività svolte dalle associazioni, purché le stesse fossero richiamate all'interno dello statuto o dell'atto costitutivo dell'ente.
Nel caso di specie, vista la generica dizione di circolo culturale ricreativo, i dubbi sorgono circa la correttezza dell'inserimento dell'ente tra quelli a carattere culturale, per i quali vale l'esenzione richiamata.
Oltre a ciò, ulteriori obiezioni potrebbero essere formulate sulla valutazione dell'attività di bar, ricompresa, probabilmente, tra quelle direttamente attuative delle finalità istituzionali, soprattutto nell'ipotesi di vendita effettuata non a costi specifici di imputazione, ma con la previsione di un margine di guadagno, al di là della distinzione meramente semantica, effettuata dai giudici di legittimità, con l'attività di spaccio.

Circa, invece, la lettura dell'insieme delle disposizioni previste dall'articolo 4 del Dpr 633/72, richiamato dalla stessa Corte per la disciplina Iva della fattispecie, vale il caso di citare il disposto del settimo comma, il quale prevede, a partire dal 1° gennaio 1998, la non commercialità per "la somministrazione di alimenti e bevande effettuata (...) verso pagamento di corrispettivi specifici (...) presso le sedi in cui viene svolta l'attività istituzionale, da bar ed esercizi similari", soltanto per le associazioni di promozione sociale (Aps), le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal ministero dell'Interno.
Alla luce di quest'ultima disposizione, è legittimo porsi l'interrogativo sull'interpretazione fornita dalla Corte, che ha esteso la presunzione appena richiamata a tutti gli enti no-profit.

Ciò avviene, peraltro, in un momento storico ove il proliferare degli enti no-profit rende necessaria una più penetrante attività di controllo dell'Amministrazione finanziaria, per la repressione dei frequenti abusi in tema di disposizioni agevolative, soprattutto in settori come quello della ristorazione (si pensi ai numerosi circoli ricreativi, che, in realtà, spesso nascondono vere e proprie attività commerciali).

Infine, giova osservare che le perplessità appena esposte trovano un fondamento anche in quanto affermato in passato dalla stessa Corte (cfr. sezione V, 3 maggio 2002, n. 6340)(1), auspicando, pertanto, se il contrasto esegetico dovesse riprodursi ancora in futuro, un intervento risolutivo ed effettivamente aderente alla ratio legis delle Sezioni unite sul punto.

NOTE
1. "In tema di I.V.A., l'attività di bar - caffè, con mescita di bevande o somministrazione di pasti ai propri associati, effettuata da un'associazione assistenziale e ricreativa, con una appropriata organizzazione e verso il pagamento di corrispettivi eccedenti i costi d'imputazione, costituisce attività commerciale assoggettabile a tributo, ai sensi dell'art. 4, commi quarto e quinto, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nel testo applicabile "ratione temporis"), quand'anche l'attività svolta dall'ente sia conforme allo scopo associativo" (massima tratta dal Ced della Cassazione).

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