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Giurisprudenza

Al redditometro basta la sentenza
che assegna l’abitazione al separato

L’accertamento con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore

Al coniuge assegnatario della casa coniugale in forza della sentenza di separazione, va attribuita la disponibilità del 100% dell’immobile, anche qualora abbia trasferito la sua residenza altrove, precisando che solo la modifica degli accordi intervenuti tra gli ex coniugi può far cadere la presunzione utilizzata ai fini del “redditometro”.
Ed è nella sua disponibilità anche il nuovo immobile, in mancanza di prova che il suo convivente, ivi residente, concorra al pagamento delle rate del mutuo per il relativo acquisto.
Lo ha affermato la Cassazione, nell’ordinanza 23349 del 6 ottobre 2017.
 
I fatti
Con avviso di accertamento emesso ai sensi dell’articolo 38, comma 4, Dpr 600/1970 e del Dm 10 settembre 1992, l’ufficio ha rideterminato i redditi di una contribuente, per l’anno 2002, in 94.324 euro (dichiarato 35.549 euro), ritenendo corretta l’attribuzione nella misura del 100% della disponibilità di due immobili, anziché, come sostenuto dalla donna, nella misura del 50 per cento.
In particolare, la prima unità immobiliare era stata assegnata alla contribuente dalla sentenza di separazione dei coniugi e, nonostante il cambio di residenza della donna, doveva ritenersi certamente nella sua disponibilità e come tale determinante la sua maggiore capacità reddituale.
La disponibilità del secondo immobile, poi, al di là della formale intestazione alla contribuente, non era esclusa dalla circostanza che altri concorrevano al pagamento del mutuo pure intestato alla donna, né dal fatto che terzi vi avevano fissato la residenza.
 
La contribuente ha proposto ricorso. Mentre la Commissione provinciale rideterminava l’imponibile complessivo, riducendolo del 50% come sostenuto dalla contribuente, la Commissione regionale ha accolto l’appello dell’ufficio, confermando integralmente l’avviso di accertamento.
La donna, allora, ha proposto ricorso per cassazione lamentando, tra l’atro:
  • violazione e falsa applicazione dell’articolo 155-quater cc, poiché la Commissione non aveva considerato che l’assegnazione della casa coniugale in sede di separazione era connessa con la funzione che la legge assegna al coniuge affidatario di abitarvi con i figli, situazione che non ricorreva nella fattispecie poiché la ricorrente, avendo trasferito la sua residenza e quella dei suoi figli, non aveva più la disponibilità del bene
  • violazione e falsa applicazione degli articoli 2 e 3, Dm 10 settembre 1992, e dell’articolo 43 cc, poiché il giudice di appello aveva erroneamente ritenuto la disponibilità completa dell’altro immobile non considerando l’attestazione di residenza del convivente della donna e il pagamento della quota del 50% della rata del mutuo da parte dell’uomo, quale indice della propria utilizzazione del bene con conseguente riduzione della disponibilità per la contribuente stessa.
La Corte, con la sentenza 23349/2017, ha respinto il ricorso, ritenendo che “… la CTR ha fatto corretta applicazione della legge e la ratio decidendi è sorretta da congrua motivazione e conforme a diritto…”.
 
Osservazioni
È noto che, in materia di accertamento sintetico del reddito (cosiddetto ‘redditometro’, ex articolo 38, Dpr 600/1973), è legittima la presunzione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di un reddito maggiore di quello dichiarato dal contribuente sulla base di elementi indiziari (dotati dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, ex articolo 2729 cc).
È altresì noto che l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (cfr Cassazione, 23158/2017 e 20588/2005).
 
In particolare, il decreto ministeriale 10 settembre 1992, in attuazione dell’articolo 38, Dpr 600/1973, ha disciplinato le modalità in base alle quali l’ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito complessivo netto sulla base degli “elementi indicativi di capacità contributiva”, tra i quali rilevano “le residenze principali e secondarie in proprietà o altro diritto reale o detenute a titolo gratuito in Italia”.
La disponibilità di tali beni, come degli altri previsti dalla norma, costituisce, quindi, una presunzione di “capacità contributiva” da qualificare “legale” ex articolo 2728 cc, perché è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto (certo) di tale disponibilità l’esistenza di una “capacità contributiva”.
 
Di conseguenza, il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici “elementi indicatori di capacità contributiva” indicati dall’ufficio, non ha il potere di togliere a tali “elementi” la capacità presuntiva “contributiva” che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offre in ordine alla provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile o perché già sottoposta a imposta o perché esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma (cfr Cassazione, 22634/2017, 18081/2010 e 16284/2007).
L’elemento che consente l’imputazione sintetica del reddito è, quindi, la disponibilità del bene e cioè “la concreta situazione fattuale data dal riscontro del potere del soggetto di trarre dallo stesso ed in proprio favore le utilità economiche che il bene, per sua natura, è in grado di fornire” (cfr Cassazione, 11213/2011 e 8116/2001).
 
Nella fattispecie esaminata, i giudici di legittimità hanno dato atto che il giudice di secondo grado aveva accertato, con statuizione in fatto non censurata, che la contribuente non aveva perso la disponibilità dell’immobile, sia perché la sentenza di separazione con la quale era stata assegnata, a suo favore, la casa coniugale non era stata oggetto di modifica, sia perché al cambio di residenza della donna non era seguito un formale provvedimento di revoca.
E altrettanto irrilevante risultava, ai fini della dimostrazione dell’altrui utilizzo, l’attestazione di residenza di terzi nell’altro immobile e l’affermazione del pagamento, sempre effettuato da parte di terzi, di una quota della rata mutuo.
A fronte dell’intestazione formale alla contribuente sia del bene sia del mutuo connesso, il giudice di secondo grado aveva ritenuto tali prove insufficienti a dimostrare una riduzione della piena disponibilità del bene.
 
Tali conclusioni di merito risultano conformi all’orientamento di legittimità (cfr sentenza 12448/2011) secondo il quale, in tema di accertamento delle imposte sul reddito, il Dm 10 settembre 1992, individua la disponibilità dei beni, indicati nello stesso decreto, come indici e coefficienti presuntivi di capacità contributiva ai fini dell’applicazione dell’articolo 38, comma 4, Dpr 600/1973 (accertamento con metodo sintetico), nei confronti di chi, “a qualsiasi titolo o anche di fatto utilizza o fa utilizzare i beni” stessi, o per i quali vengono sopportati in tutto o in parte i relativi costi.
 
Situazioni nelle quali la Ctr ha fatto rientrare la disponibilità sia della casa coniugale, in assenza di modificazione del provvedimento di assegnazione in sede di separazione dei coniugi, sia dell’immobile acquistato, ma soprattutto perché la contribuente non ha fornito idonea prova contraria (in passato, infatti, la Corte non ha ritenuto sufficiente la produzione della quietanza di pagamento dell’assicurazione auto, siccome tale documento, nonostante recasse il nome di un soggetto terzo, non dimostrava che questi avesse materialmente erogato le somme dovute per il premio assicurativo – cfr sentenza, 11213/2011).

 
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