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Giurisprudenza

Alla svista del giudice si rimedia con la revocazione

L'impugnazione della sentenza di appello per asseriti “errori di fatto” non entra nel Palazzaccio

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La falsa percezione della realtà da parte del giudice che ritenga inesistente un fatto (nella specie, la sottoscrizione dell’autorizzazione), la cui esistenza risulti, invece, obiettivamente attestata negli atti in causa, implica denunzia di vizio revocatorio deducibile esclusivamente con l’impugnazione ex articolo 395, n. 4, Cpc.
La Suprema corte (sentenza n. 24539 del 26/11/2007) ha accolto il ricorso presentato dall’agenzia delle Entrate, affermando che la sentenza di appello non va impugnata per cassazione per errori di fatto, i quali, invece, sono riparabili attraverso il rimedio della revocazione.

La vicenda trae origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento con il quale l’ufficio aveva contestato, ai fini Iva, una cessione di immobili (fabbricati di edilizia economica e popolare realizzati dalle cooperative per i propri soci) con aliquota agevolata al 2%, in assenza dei relativi presupposti.
L’adita Commissione tributaria provinciale respinse il ricorso presentato dal contribuente, rilevando che la cooperativa non aveva prodotto la documentazione idonea a comprovare la legittimità dell’applicazione dell’aliquota agevolata (grafici del complesso edilizio, varianti approvate, certificato di conformità, certificazione catastale).
I giudici di appello confermarono la sentenza di primo grado.

La cooperativa ha proposto ricorso per cassazione deducendo insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, atteso che - contrariamente a quanto asserito dai giudici di merito - era stata depositata la documentazione comprovante il diritto all’agevolazione in parola.

Le ragioni alla base del provvedimento dei giudici di legittimità, meritano un preventivo, seppur breve, esame della normativa di riferimento.
Quando una sentenza non è soggetta ad appello (perché pronunciata in grado di appello oppure in unico grado), potrà essere impugnata per cassazione per violazione di legge (articolo 360 Cpc), ma, in linea di massima, non potrà essere impugnata per altri motivi e, in particolare, per asseriti errori di fatto. Tuttavia, la legge pone alcune eccezioni a questa regola e ammette l’impugnazione per revocazione in alcuni casi in cui ragioni di equità prevalgono su ogni altra considerazione e impongono che rimanga aperta una via, sia pure esigua e stretta, di riesame della decisione.

La revocazione è un’impugnazione limitata, perché ammissibile soltanto per un numero ristretto di motivi elencati tassativamente dalla legge. Si propone allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata; questo perché i motivi che rendono ammissibile la revocazione, per quanto fra loro eterogenei, consistono in una situazione anormale che ha impedito al giudice di giudicare rettamente e nella rimozione di tale situazione. Il giudice stesso è, quindi, posto nella condizione di potere valutare nuovamente in assenza dell’ostacolo che ha fuorviato il suo primo giudizio e di potere pronunciare una sentenza giusta.

Si distinguono nella revocazione tre diverse figure:
1. revocazione ordinaria, la cui proponibilità impedisce il passaggio in giudicato della sentenza
2. revocazione straordinaria, proponibile anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza
3. revocazione del pubblico ministero.
Le tre figure differiscono profondamente fra loro, oltre che per un diverso fondamento giuridico, anche per una differente qualificazione dei motivi.
Più specificatamente, la revocazione è ordinaria quando è fondata su un vizio “palese”, immediatamente rilevabile in relazione agli altri elementi già noti e, pertanto, deducibile negli ordinari termini di impugnazione (articolo 395, nn. 4 e 5, Cpc).
La revocazione, invece, è straordinaria nel caso in cui, in seguito al passaggio in giudicato della sentenza, si scopra un vizio occulto ossia un vizio non rilevabile direttamente dal testo della sentenza (articolo 395, nn. 1, 2, 3, 6).

La revocazione è ammissibile contro le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado oppure, limitatamente alla revocazione straordinaria, contro le sentenze di primo grado, per le quali è scaduto il termine per l’appello, qualunque sia la materia della pronuncia.
In definitiva, la revocazione non è ammissibile contro le sentenze ancora soggette ad appello, essendo superfluo il rimedio limitato ed eccezionale, quando è proponibile quello normale e illimitato. Non vi è, dunque, concorrenza, ma subordinazione tra appello e revocazione, in quanto la seconda è ammissibile soltanto quando il primo è escluso. Non è soggetta a revocazione (né ad alcun’altra impugnazione) la sentenza della Corte di cassazione.

Con riferimento al ricorso per revocazione ordinaria, che esso va proposto quando:

 

  • la sentenza è il risultato di un “errore di fatto” risultante dagli atti o documenti della causa
  • la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purché non sia stata sollevata la relativa eccezione nel giudizio conclusosi con la sentenza oggetto della revocazione.

Nella revocazione ordinaria, “l’errore di fatto” risultante dagli atti e documenti della causa si verifica:

  1. quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa
  2. quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita
  3. sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato.

Tale genere di errore presuppone, quindi, il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (cfr. Cassazione 5303/1997, 953/1993, 6388/1999, 9155/1990).

Al riguardo, sia la giurisprudenza che la dottrina sono unanimi nel ritenere che non deve trattarsi di un errore di giudizio, ma di un errore di percezione, di una svista del giudice nella consultazione degli atti del processo relativi a un punto decisivo della controversia (cfr. Cassazione 50/1975, 791/1975).
In definitiva, l’errore di fatto, costituente motivo di revocazione ex articolo 395, n. 4, Cpc, oltre a riguardare un dato sul quale la sentenza revocanda non si è pronunciata, deve essere essenziale e decisivo (nel senso che tra l’erronea percezione del giudice e la pronuncia da lui emessa deve sussistere un rapporto causale tale che, senza l’errore, la pronuncia medesima sarebbe stata diversa); inoltre, nella sentenza deve sussistere una rappresentazione della realtà in contrasto con gli atti e i documenti processuali regolarmente depositati (cfr. Cassazione 6344/2002).

Tanto precisato, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato dall’agenzia delle Entrate, affermando che la sentenza di appello non va impugnata per cassazione per asseriti “errori di fatto”, i quali, invece, sono riparabili attraverso il rimedio della revocazione.
Secondo la Suprema corte, quindi, la falsa percezione della realtà da parte del giudice che ritenga inesistente un fatto (nella specie, la sottoscrizione dell’autorizzazione), la cui esistenza risulti, invece, obiettivamente attestata negli atti in causa, implica denunzia di vizio revocatorio, deducibile con l’impugnazione ai sensi dell’articolo 395, n. 4, Cpc.

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