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Giurisprudenza

Annullamento delle sanzioni:
precluso in sede di appello

Il contribuente che non ha presentato la dichiarazione dei redditi, fra l’altro, non può considerarsi esente da colpa per il solo fatto che ha incaricato il commercialista delle adempienze

La domanda di annullamento delle sanzioni amministrative irrogate per violazione delle norme tributarie deve costituire specifico motivo di impugnazione del ricorso di primo grado, non potendo essere presentata per la prima volta in appello. È quanto affermato, in estrema sintesi, dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 8924 del 14 maggio 2020.

I fatti
A seguito di omessa dichiarazione della dichiarazione annuale Iva e della dichiarazione annuale Modello 750 per l’anno d’imposta 2004 da parte di una società in accomandita semplice e dei soci, l’Ufficio ha proceduto ad accertare induttivamente i redditi ai fini Ires, Irap e Irpef e ha rilevato non solo l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, ma anche l’omesso versamento delle relative imposte. Diversamente dalla Commissione provinciale che ha rigettato i ricorsi, la Ctr, in riforma della sentenza impugnata, ha accolto in parte l’appello dei contribuenti, annullando le sanzioni, in quanto, a suo parere, società e soci avevano dimostrato che le violazioni commesse dipendevano dalla responsabilità del professionista al quale avevano affidato la contabilità, tanto che avevano sporto denuncia nei suoi confronti dinanzi all’autorità giudiziaria.
In particolare, il collegio di secondo grado, in una prima parte della motivazione della sentenza, ha ritenuto che i contribuenti dovevano ritenersi responsabili delle omissioni del commercialista in quanto la loro responsabilità si configurava non solo nei casi di dolo, ma anche in quelli di colpa tra i quali era da ricomprendere la fattispecie esaminata, nella quale vi era stata omissione di ogni controllo in ordine all’effettiva esecuzione dell’incarico conferito.
Nonostante tale parte della motivazione, tuttavia, la Commissione regionale ha poi concluso che i contribuenti non rispondevano delle sanzioni, confortata dal precedente della Cassazione (n. 25136/09) secondo il quale vi era la possibilità, in sede contenziosa, di escludere la punibilità del contribuente a seguito della dimostrazione che il pagamento del tributo non era stato eseguito per fatto addebitabile esclusivamente al professionista denunciato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dalla ricorrenza delle ulteriori condizioni previste dalla legge n. 423/1995.

L’Agenzia ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo, tra l’altro, la nullità della sentenza impugnata per inosservanza (violazione e falsa applicazione) dell’articolo 57, Dlgs  n. 546/1992 e dell’articolo 112 cpc.

Nei tre ricorsi introduttivi del giudizio di primo grado, infatti, né la società né i due soci hanno mai allegato l’esistenza di cause di giustificazione per chiedere l’annullamento delle sanzioni pecuniarie applicate dalla Agenzia delle entrate, ex articolo 6, comma 3, Dlgs n. 472/1987. Solo in sede di appello, è stata sollevata tale questione per la prima volta, incorrendo nella sanzione della sua  inammissibilità, ex articolo 57, Dlgs n. 546/1992.
La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso e ha affermato che “i contribuenti avrebbero dovuto impugnare i rispettivi avvisi di accertamento anche con riferimento all’annullamento delle sanzioni, con indicazione delle ragioni della richiesta, e quindi evidenziando la condotta infedele del professionista, già nei rispettivi ricorsi introduttivi dei giudizi di primo grado” (Cassazione, ordinanza n. 8924/20).

Osservazioni
I giudici di legittimità hanno esaminato il contenuto dei ricorsi introduttivi del giudizio di primo grado, presentati dalla società e dai due soci, integralmente trascritti nel ricorso per cassazione (da pagina 27 a pagina 42). Da tale controllo è emerso che non vi era alcuna menzione delle sanzioni e della richiesta di annullamento delle stesse per condotta negligente o dolosa del professionista. Inoltre, neppure il giudice di prime cure, che ha rigettato i tre ricorsi riuniti, ha rilevato e affrontato tale questione.
Solo con l’appello i contribuenti hanno, per la prima volta, sostenuto che doveva essere esclusa nei loro confronti l’applicazione delle sanzioni, in quanto (solo) l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi era imputabile in via esclusiva al professionista, allegando anche di avere presentato denuncia nei suoi confronti dinanzi all'autorità giudiziaria. A tale riguardo, la Corte ha risolto la questione sottoposta al suo vaglio sul piano processuale, rinviando alla disposizione dell’articolo 57, Dlgs n. 546/1992 secondo la quale “nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio”.
Per principio di legittimità consolidato, infatti, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, ex art. 57, comma 2, Dlgs n. 546/1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cassazione, n. 31224/2017; n. 11223/2016).

I giudici di legittimità hanno lasciato al giudice del rinvio il riesame delle sanzioni irrogate ai contribuenti per le violazioni di disposizioni tributarie contestate, relative all’omessa presentazione delle dichiarazioni e al conseguente mancato versamento delle imposte, non potendo costituire eccezioni oggetto del giudizio di secondo grado.
Oltre che per l’inammissibilità della domanda presentata per la prima volta in appello, comunque, il silenzio della Corte sull’applicazione delle sanzioni irrogate ai contribuenti ha, probabilmente, la sua giustificazione nell’orientamento consolidato di legittimità secondo il quale deve ritenersi che i contribuenti sono chiamati a rispondere per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato, non avendo dimostrato, pur essendone onerati secondo le regole generali dell’illecito amministrativo, né di aver vigilato su quest’ultimo (Cassazione, n. 5661/2020; n. 19422/18), né di avere fornito al professionista la provvista per il pagamento dei tributi (Cassazione, n. 6930/2017 e n. 24535/2017). La violazione delle norme tributarie suscettibile di sanzione richiede, infatti, ex articolo 5, Dlgs n. 472/1997, che il comportamento addebitato sia posto in essere con dolo o anche colpa.
Di conseguenza, il contribuente cui venga contestata la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi non può considerarsi esente da colpa per il solo fatto di aver incaricato un professionista delle relative adempienze, dovendo egli altresì allegare e dimostrare, al fine di escludere ogni profilo di negligenza, di avere svolto atti diretti a controllare la loro effettiva esecuzione e di aver provato il comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento (Cassazione, n. 581/2019 e n. 1815/2019).
Deve osservarsi, inoltre, che l’articolo 6, comma 3, Dlgs n. 472/1997, nel disciplinare le ipotesi di omesso pagamento del tributo determinato da fatto illecito altrui, prevede che i contribuenti “…non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”. Per l’applicazione di tale causa di non punibilità, il contribuente deve necessariamente dimostrare sia che il pagamento del tributo non è avvenuto per fatto denunciato all’autorità giudiziaria, sia che tale fatto è addebitabile ad esclusiva colpa del terzo.
Né, per escludere l’irrogazione delle sanzioni ai contribuenti, risulta giustificato il richiamo della sentenza di secondo grado alla pronuncia della Cassazione, n. 25136/2009, poiché  relativo ad  una fattispecie, riconducibile all’articolo 1, legge n. 423/1995, nella quale era stata accertata l’esclusiva riferibilità al terzo della condotta sanzionata, diversamente da quanto riscontrato nel caso in esame,  nel quale la sola presentazione della denuncia all’autorità giudiziaria è stata recepita come determinante al fine dell’automatico accertamento di tale “esclusiva riferibilità”. Inoltre, non risulta appropriato il richiamo all’articolo 1, legge n. 423/1995, anche perché la disposizione opera solo sul piano della riscossione e ne prevede la sospensione in presenza di due condizioni e cioè qualora: a) la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, del professionista, che abbia agito in costanza del loro mandato professionale; b) il contribuente, gravato dell’onere della prova, dimostri di aver fornito al professionista incaricato, denunziato all’autorità giudiziaria, la provvista di quanto dovuto all’Erario e di avere vigilato sul puntuale adempimento del mandato (Cassazione, n. 24535/2017).

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