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Giurisprudenza

Anomalie su operazione commerciale
fanno sospettare la frode carosello

Non è necessaria la prova della partecipazione all'evasione, ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole

carosello

Con la sentenza n. 20587 del 31 luglio 2019, la Cassazione ha affermato che deve essere disconosciuta la detrazione Iva nelle operazioni soggettivamente inesistenti se l’ufficio elenca indici persuasivi, sintomatici della compartecipazione alla frode e prova che il contribuente (cessionario/committente) non potesse non saperne l’esistenza.

I fatti
In seguito ai controlli effettuati a carico di una Spa, riguardanti i periodi di imposta 1999 - 2002, l’Agenzia delle entrate ha emesso un avviso di accertamento (anche) per indebita detrazione Iva.
In particolare, la Ctr in accoglimento dell’appello dell’Agenzia e in riforma della decisione impugnata, ha annullato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva escluso che la società  fosse consapevole di partecipare a una frode carosello. Per i giudici di appello, invece, la contribuente ben era a conoscenza, “di ciò che stava succedendo” poiché non solo risultava essere l’unica cliente di una Srl (avendo acquisito la quasi totalità delle auto commercializzate da quest'ultima), ma aveva altresì costituito, in favore della stessa, una fideiussione bancaria per circa un milione di euro. Era “impensabile” che la Spa:

  1. prima di fornire tale garanzia, non avesse chiesto informazioni bancarie e commerciali sulla beneficiaria
  2. operando sul mercato da molti anni, non fosse in grado di riconoscere e quindi distinguere “i rivenditori corretti da quelli, più o meno fasulli, tenuto conto dei rapporti intercorrenti, anche se modesti, con le ditte importatrici ufficiali dei marchi” commercializzati dalla fornitrice.

Non era credibile, inoltre, che la contribuente non avesse interpellato proprio i rivenditori ufficiali, al fine di scontare condizioni simili: ciò che, in caso di diniego, l’avrebbe dovuta portare, con l’ordinaria diligenza commerciale, a interrogarsi sui sistemi che rendevano competitivi i prezzi praticati e a realizzare che “ci si trovava di fronte ad operazioni poco limpide alla cui base vi era una frode fiscale.
La società ha proposto ricorso per cassazione e la Corte lo ha respinto, affermando che “in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’onere della prova che grava sull’Amministrazione si incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale e in particolare: a) l’alterità soggettiva dell'imputazione delle operazioni, nel senso che il soggetto formale non è quello reale; b) il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione Iva: non è necessaria, cioè, la prova della partecipazione all’evasione ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole.” (cfr. Cassazione, n. 20587/19)

Osservazioni
I giudici di piazza Cavour, richiamando principi elaborati dalla giurisprudenza sia interna che unionale, hanno elencato una serie di indici che per l’ufficio sono “sintomatici” sia della partecipazione del contribuente ad una frode, sia della circostanza che il cessionario/committente non potesse non esserne a conoscenza.
In particolare, la Corte ha chiarito che l’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria deve essere ancorato alla circostanza che, sulla base di elementi obbiettivi e specifici, individuati e contestati dalla stessa Amministrazione, il cessionario conosceva o avrebbe dovuto conoscere che la sua operazione si inseriva in un’evasione Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza e alla luce della sua qualificata posizione professionale, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare e afferenti alla sua sfera di azione.
L’amministrazione cioè, per assolvere al suo onere probatorio, da una parte, deve mettere in luce l’identità non veritiera dell’operatore sulla base di presunzioni, ex articolo 54, comma 2, Dpr n. 633/72, offrendo elementi indiziari (Cassazione, n.9851/18; n.14237/17; n. 20059 e n. 25778 del 2014; Corte di giustizia, C-439/04 e C-440/04; C-80/11 e C142/11); dall’altra, deve verificare se l’operazione si inserisca o meno in una fattispecie fraudolenta di evasione d’imposta. L’esito di tale controllo non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione, ma richiede l’ulteriore riscontro della mancanza della sua buona fede.

Al riguardo, la Cassazione, richiamando i principi elaborati in sede euro-unionale (Corte di giustizia C-285/11; C-277/14, paragrafo 50), ha concluso che “l’Amministrazione tributaria è tenuta a provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, ‘a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente.’”

La Corte, tuttavia, ha precisato che nessun automatismo probatorio può produrre effetti a svantaggio del cessionario/committente.
Quest’ultimo, infatti, non può ritenersi responsabile solo per aver effettuato operazioni con una cartiera ovvero con un operatore che, a sua volta, vi abbia intrattenuto rapporti. Di conseguenza, da un lato non si possono “esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono” (e cioè non si può chiedere al soggetto passivo, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, di verificare che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse, fosse in grado di fornirli e che avesse rispettato i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o che disponesse dei relativi documenti” - Cassazione, n. 24490/15 e n. 17290/17); dall’altro, l’obbligo di verifica del cessionario permane  in presenza di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione.
La Corte indica, a titolo esemplificativo, una serie di elementi sintomatici dell’operazione soggettivamente fittizia e cioè:

  • l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato e  la limitatezza dell’eventuale ricarico (anche se risulta logico che il contribuente non scelga, tra i fornitori, quello più caro)
  • la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione (come del resto se il pagamento viene chiesto sul conto di un soggetto terzo)
  • la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato (che esige una più attenta e approfondita valutazione dei propri interlocutori, proprio per verificarne l’effettività), giustificata da esigenze di accelerazione e di margini produttivi
  • la tempistica dei pagamenti, soprattutto se incrociati o operati su conti esteri a fronte di interlocutori nazionali, ovvero se effettuati in contanti; la qualità del concreto intermediario con il quale sono state intrattenute le operazioni commerciali
  • il numero, la qualità e la durata delle transazioni, specie a fronte di rapporti contigui e frequentazioni reiterate con i titolari della cartiera, ovvero nel caso in cui il contribuente abbia rapporti commerciali con una pluralità di soggetti aventi la quantità di cartiera.

Nella fattispecie di operazioni soggettivamente inesistenti esaminata, con riferimento al tema della distribuzione dell’onere della prova, il giudice di appello, pur in mancanza di specifiche deduzioni sul punto, ha valutato tutti gli elementi di prova acquisiti (l’acquisto di quasi tutte le auto dal fornitore e il rilascio, a suo favore, di una consistente fideiussione), anche se non considerati dal giudice di primo grado, in applicazione del principio di acquisizione processuale (secondo il quale le risultanze istruttorie comunque ottenute, e quale che sia la parte a iniziativa o a istanza della quale siano formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice - Cassazione, n. 14284/18). E ha valutato anche la mancanza, da parte della contribuente, della prova della propria buona fede: la società avrebbe potuto articolare il proprio onere probatorio su una pluralità di livelli: investendo sia l’asserito carattere di anomalia degli elementi posti in evidenza dal Fisco, sia l’attività conoscitiva preventiva da lei stessa posta in essere, con conseguente dimostrazione che emergeva, in relazione all’effettività e all’operatività dell’impresa interposta, un esito tranquillizzante e che non potevano essere esperibili, né tantomeno esigibili, accertamenti più incisivi.

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