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Giurisprudenza

Autocertificare un reddito più basso
costituisce reato di falso ideologico

Risponde del delitto in questione chiunque renda false attestazioni al fine di ottenere determinati benefici. In questo caso, poi, non era neanche necessario provare il dolo

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Con la sentenza 33218 del 23 agosto, la quinta sezione penale della Corte di cassazione ha stabilito che rischia la reclusione per falsità ideologica chi autocertifica un reddito più basso in una dichiarazione sostitutiva di certificazione.
 
Il fatto
La vicenda è quella di un’imputata che aveva reso in una dichiarazione sostitutiva di certificazione false dichiarazioni sul reddito, asserendo di essere titolare di redditi pari a zero. Per questo motivo erano scattate le accuse per falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (articolo 483, codice penale). Ma neppure l’opposizione dell’imputata alla sentenza del tribunale ha fatto breccia sulla Corte d’appello, che ha confermato la condanna di primo grado. Infine, nel conseguente ricorso per Cassazione, la ricorrente ha sostenuto che nella specie del reato ascrittole mancava sia l’elemento soggettivo, in quanto il delitto era stato compiuto per “mera distrazione”, sia l’elemento oggettivo, atteso che l’autocertificazione prodotta non è un atto pubblico.
 
La falsità ideologica nella giurisprudenza di legittimità
Va premesso che le pronunce della Corte di cassazione, in tema di elemento soggettivo nel reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (ex articolo 483 del codice penale – che punisce chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità), pongono l’attenzione su una particolare necessità di indagine da parte del giudice sulla rappresentazione e la volontà dell’agente del falso.
Già infatti, nella sentenza 47867/2003, il giudice di legittimità aveva affermato che “il dolo integratore del delitto di falsità ideologica di cui all’art. 483 cod. pen. è costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero”, precisando, successivamente, in tema di falso ideologico (ex articolo 479 del codice penale) che benché sia richiesto il solo dolo generico per la configurabilità del delitto suddetto “deve tuttavia escludersi che esso possa ritenersi sussistente per il solo fatto che l’atto contenga un asserto obiettivamente non veritiero, dovendosi invece verificare, anche in tal caso, che la falsità non sia dovuta ad una leggerezza dell’agente come pure ad una incompleta conoscenza e/o errata interpretazione di disposizioni normative o, ancora, alla negligente applicazione di una prassi amministrativa” (Cassazione, sentenza 27770/2004).
Pertanto, la verifica sulla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’agente deve essere oggetto di una attenta analisi da parte dell’organo giudicante, tenuto ad appurare che la mendace dichiarazione sia frutto di una volontaria e consapevole attestazione di un quid falso, escludendosi la punibilità della condotta persino quando la mancata consapevolezza derivi da una ignoranza in materia di disposizioni normative.
 
La decisione
Con la sentenza 33218/2012, nel respingere il ricorso dell’imputata, la quinta sezione penale ha reso definitiva la condanna, spiegando che giurisprudenza consolidata (cfr sezioni unite, sentenza 6/1999 e sentenze 19361/2006, 20570/2006, 5365/2007, e 4970/2012) ha stabilito che la norma di cui all'articolo 76 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (Dpr 445/2000), nello stabilire la sanzione penale per chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal medesimo Dpr, rimanda al codice penale e alle leggi speciali in materia. Ne consegue che risponde del reato di cui all'articolo 483 il privato che renda false attestazioni circa gli stati, le qualità personali e i fatti indicati nell'articolo 46 del citato Testo unico al fine di ottenere determinati benefici.
 
Il legislatore, dunque, non ha inteso punire qualsiasi dichiarazione o falsa attestazione del privato, ancorandosi al concetto di lesione di un qualsiasi bene vago e indeterminato, ma si é attenuto al valore tipico (di prova) assegnato al documento dall'ordinamento giuridico in relazione al fatto attestato dal privato. Non ha considerato né ha protetto un qualsivoglia valore etico di verità o un interesse sociale genericamente inteso e, di fatto, consegnato alla determinazione dell'interprete, ma, più chiaramente, ha disegnato un interesse connesso alla funzione probatoria specifica che al documento viene assegnata dalle norme giuridiche di qualsiasi natura a prescindere dall'uso concreto dall'atto, uso che non fa parte della struttura normativa né è richiesto per l’incriminazione (Cassazione, sezioni unite, sentenza 28/1999; cfr anche Cassazione, sentenza 19361/2006).
 
Né nel caso concreto risulta avvalorata dalla Cassazione, per “sconfiggere” la doppia condanna di merito, l’asserita “buona fede” dell’interessata, in quanto la stessa non poteva non avere la consapevolezza che il suo reddito non era pari a zero. Quindi non era neppure necessario che l'accusa provasse il dolo dell'imputata connaturato all'operazione stessa. Infatti, nel delitto di falso, il dolo viene escluso tutte le volte in cui tale falsità risulti essere semplicemente dovuta a una leggerezza o negligenza, dal momento che il vigente codice penale non prevede la figura del falso documentale colposo (Cassazione, sentenze 2593/1990, 1963/2000 e 15485/2009).
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