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Giurisprudenza

Bancarotta e sottrazione fraudolente:
gli obblighi degli amministratori

La Corte di legittimità si è soffermata sul tema del rapporto tra reati fallimentari e/o di volontaria omissione del pagamento delle imposte e responsabilità risarcitoria verso l'Agenzia delle entrate

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Ai fini di eventuali azioni risarcitorie nei confronti degli amministratori, anche a seguito di procedimenti per bancarotta e sottrazione fraudolente al pagamento delle imposte, il danno subito dall’Agenzia delle entrate può essere commisurato in misura equivalente al debito tributario non assolto. È pienamente configurabile, in tali casi, il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione.

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 27426 del 22 giugno 2023, ha affrontato argomenti molto rilevanti in tema di rapporto tra reati fallimentari e/o di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e responsabilità risarcitorie verso l'Agenzia delle entrate.

Nel caso in esame, i giudici del merito avevano ricostruito la complessiva vicenda, sfociata nell'imputazione associativa e nella contestazione dei reati fiscali e fallimentari, nei seguenti termini.
Alcuni imprenditori, amministratori di società, ormai in irrecuperabile difficoltà finanziaria, si erano rivolti a uno studio professionale, per essere consigliati su come fosse meglio procedere.
Gli veniva, dunque, suggerito di lasciare che le società si avviassero all'inevitabile dissesto, cercando, però, di garantirsi l'immunità da eventuali responsabilità penali, effettuando una serie di operazioni societarie e di cessione di cespiti, volte alla spoliazione dei residui patrimoni sociali, e omettendo, nel contempo, di assolvere ai debiti tributari.
Le operazioni erano molto complesse, anche per rendere difficoltosa la comprensione, da parte degli organi inquirenti e dei funzionari dell’Agenzia delle entrate, degli illeciti, fiscali e fallimentari, che con esse si andavano consumando.
In ultimo, era previsto anche il trasferimento delle società all'estero per tentare di eludere la formale declaratoria di fallimento.

Un "pacchetto", quello descritto, che, in pochi anni, era stato riprodotto (pur con le variabili necessarie ad adattarlo alle varie situazioni concrete) in varie vicende.

Tanto premesso, tra i tanti motivi sollevati dai diversi imputati nel ricorso per cassazione, ve ne erano anche alcuni inerenti la quantificazione del danno subito dall’Agenzia delle entrate, commisurato in misura equivalente al debito tributario non assolto e conseguente alla commissione del reato di cui all’articolo 11 del Dlgs n. 74/2000.
In particolare, i ricorrenti contestavano l’avere fissato il danno nell'ammontare dell'imposta evasa, laddove la giurisprudenza di legittimità aveva precisato che il danno non si identifica, in realtà in questi casi, con l'importo del tributo evaso, dato che questo poteva essere comunque già oggetto di azione di recupero.
Secondo gli imputati non si era dunque concretamente quantificato il danno, né il nesso di causalità fra questo e le condotte consumate.
L'importo liquidato, in base alla tesi difensiva, era poi del tutto sproporzionato, perché avrebbe dovuto essere parametrato ai soli beni della società sottratti alla garanzia del debito fiscale.

Le censure, a parere della Corte di cassazione, sono manifestamente infondate.
I giudici di legittimità evidenziano che, come già affermato dalla suprema Corte (cfr Cassazione, n. 32897/2021), quanto alla previsione di cui all’articolo 11 del  Dlgs n. 74/2000, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte “è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario" (cfr anche Cassazione, sezioni unite, pronuncia n. 18374/2013).
Il danno, pertanto, sotto tale profilo, ben può coincidere con l'imposta interamente evasa.

A latere dello specifico caso processuale, è del resto anche opportuno ricordare come risulti ormai pacifico e consolidato l'orientamento alla cui stregua la corretta esecuzione del pagamento dei tributi e degli oneri fiscali rappresenta un obbligo per gli amministratori, laddove, tra le altre, sulla quantificazione del danno causato dalla violazione del divieto di prosecuzione in seguito al verificarsi di una causa di scioglimento, il criterio a cui fare riferimento può essere anche quello della differenza dei netti patrimoniali.
Con tale criterio, in sostanza, il danno viene calcolato come differenza tra i patrimoni netti individuati nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento e nel momento del passaggio alla fase di liquidazione (ovvero alla dichiarazione di fallimento).
In questo modo, il metodo adottato rispetta senz’altro il nesso di causalità tra il comportamento illegittimo e la produzione del danno. Il danno. in termini di perdita incrementale netta, infatti, consente di apprezzare l'effettiva diminuzione subita dal patrimonio della società per effetto della ritardata liquidazione.

A mente dell'articolo 2394 cc, gli amministratori rispondono, del resto, verso i creditori sociali, per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (cfr Tribunale di Roma, sentenza n. 1231/2023). La responsabilità a essi ascrivibile è, quindi, sottoposta al duplice presupposto dell'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale e della conseguente sua insufficienza al soddisfacimento delle ragioni dei creditori.
Si tratta, pertanto, di una responsabilità diretta verso i creditori sociali degli amministratori che, con azioni ovvero omissioni costituenti violazione degli obblighi di cui all'articolo 2392 cc, abbiano causalmente determinato l'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei creditori sociali, attraverso comportamenti funzionali a una sua diminuzione, di entità tale da renderlo inidoneo ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (articolo 2740 cc).

La giurisprudenza di legittimità ha peraltro, a tal proposito, evidenziato che, ai fini della sussistenza del dolo generico, non sono neppure necessari la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori (cfr Cassazione, nn 32219/2013, 21846/2014 e 44933/2011), richiedendosi piuttosto che oggetto di consapevolezza sia, in relazione alla concreta situazione della società, l'incidenza dell'atto distrattivo sulle prospettive di soddisfacimento concorsuale dei creditori (cfr Cassazione, n. 29850/2022), nonché la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr Cassazione, sezioni unite, n. 22474/2016 e anche pronuncia n. 4710/2020).
Inoltre, assume rilievo, in ordine agli indici di fraudolenza, il collocarsi del singolo fatto in una sequenza di condotte di spoliazione dell'impresa poi fallita, ovvero in una fase di già conclamata di dissesto della stessa.

Tornando, comunque, alla sentenza in commento, altra affermazione di rilievo è infine quella per cui è, in tali casi, pienamente configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico (rispettivamente, dolo specifico e dolo generico – cfr Cassazione nn. 35591/2017 e 22143/2022).

La pronuncia, in sostanza, è molto rilevante sotto il profilo del rapporto tra evasione fiscale e reati fallimentari e tributari, laddove, in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose possono consistere anche nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della esposizione debitoria sociale nei confronti dell'erario e degli enti previdenziali (cfr Cassazione, n. 24752/2018).
In conclusione, il tema potrebbe peraltro rilevare, anche ai fini accertativi, sotto il profilo delle responsabilità personali dell’amministratore di fatto, laddove, per esempio, come purtroppo spesso accade, un amministratore di una società, dopo avere solo formalmente smesso di esserne l’amministratore di diritto, metta alla guida della stessa società un mero prestanome e ne resti comunque il vero dominus/amministratore di fatto, usando la società solo come strumento di “finanziamento”, omettendo di pagare le imposte dovute per trarne vantaggi personali e dirottando magari le risorse finanziarie verso altre società a lui riconducibili, nazionali o estere.
In tali casi, l’amministratore di fatto, qualora vi sia la prova dello svolgimento dell’attività gestoria per fini personali e a proprio vantaggio, in deroga all’articolo 7 del Dl n. 269/2003, potrà anche essere chiamato a rispondere direttamente delle imposte e delle sanzioni comminate alla società (cfr Cassazione, nn. 23231/22, 36003/21 e 5276/22).

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