In tema di valutazione delle rimanenze in chiusura d'esercizio, ai fini della determinazione del reddito d'impresa, il criterio del minore fra il valore di mercato o di possibile realizzo ed il costo specifico (quale costo di acquisto o di produzione), di cui all'articolo 92, comma 5, Tuir, non può essere applicato a beni valorizzati a costi specifici.
Pertanto, non è deducibile, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, la svalutazione delle rimanenze iscritte a costo specifico.
La questione affrontata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 10773/2023 ha ad oggetto il discusso tema della deducibilità fiscale della svalutazione dei beni-merce valutati a costo specifico.
Preliminarmente è bene chiarire il panorama in cui si colloca la sentenza in esame.
Le rimanenze di magazzino sono costituite da beni destinati alla vendita o che concorrono alla loro produzione nella normale attività svolta.
La valutazione delle rimanenze finali produce effetti sia ai fini civilistici, per la redazione del bilancio e la determinazione del risultato d’esercizio, sia ai fini fiscali, per la determinazione del reddito d’impresa. È appena il caso di precisare che gli effetti de quibus rilevano tanto per l’esercizio in chiusura quanto per quello immediatamente successivo, poiché le rimanenze finali di un esercizio rappresentano esistenze iniziali per l’esercizio successivo.
Sul piano civilistico, l’articolo 2426, n. 9, cc dispone che “Le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritti al costo di acquisto o di produzione, calcolati secondo il n. 1 ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore. Tale minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se ne sono venuti meno i motivi”. Ai sensi del richiamato comma 1, il costo di acquisto ricomprende anche i costi accessori, mentre il costo di produzione è costituito dai costi diretti e indiretti per la quota parte ragionevolmente imputabile al prodotto, compresi “gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione interna o presso terzi”.
Ai sensi del successivo n. 10, “Il costo dei beni fungibili può essere calcolato col metodo della media ponderata o con quelli «primo entrato, primo uscito» o «ultimo entrato, primo uscito». Se il valore così ottenuto differisce in misura apprezzabile dai costi correnti alla chiusura dell’esercizio, la differenza deve essere indicata, per categoria di beni, nella nota integrativa”.
Il principio contabile Oic 13 specifica i criteri per la determinazione del costo dei beni, distinguendo tra beni infungibili e beni fungibili. È precisato che “il metodo generale per la determinazione del costo dei beni è il costo specifico che presuppone l’individuazione e l’attribuzione alle singole unità fisiche dei costi specificamente sostenuti per le unità medesime. Per i beni infungibili appare agevole individuare il costo d’acquisto dei singoli beni in rimanenza. In tale ipotesi, pertanto, la variazione delle rimanenze si determina attraverso l’effettuazione di una valutazione a “costi specifici”. Diversamente, in presenza di beni fungibili per quantificare la variazione è necessario raggruppare i beni in “categorie omogenee” al fine di attribuire a ciascun gruppo la valutazione appropriata.
I metodi con cui effettuare la valutazione dei beni fungibili sono:
- “Fifo” (“first in first out”, o “primo entrato, primo uscito”): si assume che le quantità acquistate o prodotte in epoca più remote siano le prime ad essere vendute o utilizzate in produzione; restano quindi in magazzino le quantità relativi ad acquisti o produzioni differenti
- Costo medio ponderato: si assume che il costo di acquisto di ciascun bene in rimanenza sia parti alla media ponderata del costo degli analoghi beni presenti in magazzino all’inizio dell’esercizio e del costo degli analoghi beni acquistati durante l’esercizio. Le vendite sono scaricate dal magazzino al costo medio ponderato preso a riferimento per il calcolo
- “Lifo” (“last in first out” o “ultimo entrato, primo uscito”): si assume che le quantità acquistate o prodotte più recentemente siano le prime ad essere vendute o utilizzate in produzione; restano in magazzino le quantità relative agli acquisti o alle produzioni più remote.
Quanto alla disciplina fiscale, l’articolo 92, comma 1, del Tuir stabilisce che “(…) le rimanenze finali, la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici o a norma dell’articolo 93, sono assunte per un valore non inferiore a quello che risulta raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e per valore e attribuendo a ciascun gruppo un valore non inferiore a quello determinato a norma (...)” dei successivi commi 2, 3 e 4. Il successivo comma 5 prevede che “Se in un esercizio il valore unitario medio dei beni, determinato a norma dei commi 2, 3 e 4, è superiore al valore normale medio di essi nell’ultimo mese dell’esercizio il valore minimo di cui al comma 1 è determinato moltiplicando l’intera quantità dei beni, indipendentemente dall’esercizio di formazione, per il valore normale”.
Il successivo comma 5 prevede che “Se in un esercizio il valore unitario medio dei beni, determinato a norma dei commi 2, 3 e 4, è superiore al valore normale medio di essi nell’ultimo mese dell’esercizio il valore minimo di cui al comma 1 è determinato moltiplicando l’intera quantità dei beni, indipendentemente dall’esercizio di formazione, per il valore normale”.
Quanto alla deducibilità della svalutazione dei beni iscritti a costo specifico, nel tempo si sono sviluppati due orientamenti:
- Per un primo orientamento, il combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’articolo 92 Tuir esclude la possibilità di valutare, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, le rimanenze dei beni iscritti a costo specifico al minore tra il valore di mercato e il costo d’acquisto. Di conseguenza, la svalutazione delle rimanenze valutate a costo specifico non assume rilevanza ai fini della determinazione del reddito d’impresa: il disallineamento tra dato civilistico e dato fiscale richiede una variazione in aumento del risultato di esercizio in sede di dichiarazione tributaria.
In tal senso si è espressa l’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 78/E del 2013.
Nel dettaglio, l’Amministrazione, precisando che “Il mancato richiamo nell’ambito del comma 5 dell’articolo 92 ai beni valutati a costi specifici porta a ritenere che il legislatore abbia inteso individuare una specifica disciplina fiscale, ai fini della valutazione delle rimanenze, con esclusivo riferimento ai beni valutati con criteri di determinazione alternativi al costo, per i quali ha riconosciuto la possibilità di procedere alla relativa svalutazione. Facoltà preclusa in relazione ai beni valutati al costo, la cui svalutazione non trova riconoscimento fiscale”, aveva concluso che la svalutazione iscritta in bilancio dalla società istante relativamente all’immobile iscritto al costo di acquisto non assume rilevanza ai fini Ires “rendendo pertanto necessario operare in sede di dichiarazione una variazione in aumento del reddito in misura corrispondente alla svalutazione contabile effettuata”.
La citata risoluzione è stata poi richiamata dalla circolare n 10/2014 e, in relazione all’Irap, con la risposta n. 60/2020.
- Opposto orientamento (sostenuto dall’Associazione italiana dottori commercialisti, norma di comportamento n. 168/2007) ritiene, invece, che il mancato richiamo dell’articolo 92, comma 5, Tuir, ai beni valutati a costo specifico non precluda che, ai fini della valutazione al termine dell’esercizio, il loro valore debba essere comunque confrontato con il valore normale di essi, intendendosi per essi il valore attribuibile, il minore tra i due importi secondo il principio di cui all’articolo 2426 n. 9, del codice civile.
Pertanto, alle rimanenze valutate a costo specifico si applicherebbe il principio civilistico della valutazione al valore di mercato se risulta inferiore al costo e l’eventuale svalutazione, dal punto di vista fiscale, assumerebbe rilevanza ai fini della determinazione del reddito.
La sentenza in esame condivide la tesi sostenuta dall’Agenzia delle entrate (sostenuta pure dalla maggioranza della dottrina e condivisa da Assonime, cfr “Guida Assonime all’applicazione dell’IRES e dell’IRAP per le imprese IAS adopter, maggio 2011”).
La Corte di cassazione evidenzia che il comma 1 dell’articolo 92 del Tuir pone una regola generale di alternatività dei criteri di valutazione delle rimanenze, contrapponendo in particolare i beni la cui valutazione sia effettuata a costi specifici o a norma dell'articolo 93 Tuir agli altri, la cui caratteristica consiste nella raggruppabilità "in categorie omogenee per natura e per valore": per questi ultimi la valutazione può seguire i criteri dei costi specifici o dell'articolo 93 Tuir, ma può anche esser condotta attribuendo loro "un valore non inferiore a quello determinato a norma delle disposizioni che seguono", disposizioni che per l'effetto individuano il valore minimo inderogabile.
Secondo la Corte di cassazione, il comma 5, come i commi 2, 3, e 4, riguarda esclusivamente i beni raggruppabili in categorie omogenee. La soluzione prospettata è frutto di un’interpretazione sistematica dei giudici di legittimità che pongono l’accento sul “catenaccio linguistico che avvince i commi 1 e 5 senza soluzione di continuità”.
In tal senso, per i beni raggruppabili in categorie omogenee l'ultima parte del comma 1 detta la regola del valore minimo inderogabile "determinato a norma delle disposizioni che seguono" (commi 2, 3 e 4); a sua volta, il comma 5 individua in principio il proprio ambito applicativo con esplicito riferimento ai commi da 2 a 4, sotto il profilo della peculiare ipotesi in cui "in un esercizio il valore unitario medio dei beni, determinato a norma dei commi 2, 3 e 4, (sia) superiore al valore normale medio di essi nell'ultimo mese dell'esercizio".
Così chiarito, secondo la Corte di cassazione quando il comma 5 fa riferimento al “valore minimo di cui al comma 1”, lo fa avuto riguardo unicamente ai beni raggruppabili in categorie omogenee, poiché solo a tali beni, “a priori”, si riferiscono i commi da 2 a 4.
Pertanto:
- avuto riguardo unicamente ai beni raggruppabili in categorie omogenee, il comma 5 consente bensì "anche" la valutazione al valore normale, nondimeno, non già in generale, ma soltanto se essa sia inferiore a quello risultante dall'applicazione dei metodi di cui ai commi da 2 a 4 (sostanzialmente: Lifo, Fifo e media ponderata)
- avuto riguardo ai beni diversi da quelli raggruppabili in categorie omogenee, valgono esclusivamente i criteri dei costi specifici o dell'articolo 93 del Tuir, senza cioè alternative, non testualmente previste, in specie in favore dell'applicazione del criterio, oltretutto in sé speciale per gli stessi beni raggruppabili in categorie omogenee, della valutazione al valore normale.