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Giurisprudenza

Bevande e alimenti muniti di Iva
se l’avventore è privo di tessera

In tal caso, l’attività svolta, in base al Dpr 633/1972, è commerciale e perciò imponibile come per ogni altro esercizio, tanto più se insegna e menù invitano chiunque a entrare

La Corte di cassazione, con la sentenza 5154 del 16 marzo 2016, considera non imponibili, perché carenti del requisito della commercialità, le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali del circolo ricreativo anche se effettuate verso pagamento di corrispettivi, mentre rientrano in campo impositivo la somministrazione di cibi e bevande ai non soci, avvenuta nei locali del circolo, antecedentemente all’entrata in vigore della legge 383/2000.
 
La decisione è stata presa su impulso delle indagini finanziarie condotte dalla Guardia di finanza presso un circolo, dalle quali emergeva che l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, svolta nei locali dell’associazione, in realtà si configurava come commerciale, dunque soggetta a Iva.
 
Contro la cartella esattoriale notificata sulla base del Pvc redatto dalla polizia tributaria, veniva prodotto ricorso: l’atto impositivo era dichiarato illegittimo soltanto in seconde cure.
In particolare, nel primo grado di giudizio, la Ctp aveva ritrovato il carattere di commerciabilità nella vendita delle bevande all’interno del circolo, mentre la Ctr, di converso, aveva ritenuto che l’attività avesse meramente fini ricreativi, anche in virtù della sopravvenuta normativa più favorevole a tale tipo di associazionismo.
 
Per essere più precisi, nella sentenza di secondo grado, il giudice rilevava che dall’attività svolta “non v'era ragione per escludere gli scopi solidaristici tipici del circolo”, nonostante nel Pvc fosse stata evidenziata la presenza di avventori esterni e l’assenza di limitazioni all’ingresso che potessero regolare l’accesso ai clienti, distinguendoli tra associati e non; inoltre, all’esterno del locale, era stato rinvenuto il menù che richiamava la clientela.
Secondo la Ctr, il numero dei non iscritti identificati nel circolo era da ritenersi limitato e soltanto alcuni documenti contabili, trovati in sede di accesso e verifica, erano stati emessi nei confronti di un soggetto estraneo al circolo, fatto dal quale non poteva trarsi la peculiarità della commercialità rispetto all’extra attività svolta dall’associazione.
 
Avverso la sentenza di secondo grado l’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione, adducendo che l’applicazione della retroattività della sopravvenuta normativa più favorevole alle attività svolte all’interno di questo tipo di associazioni (articolo 4, legge 383/2000) avrebbe comportato una palese diversità di trattamento fiscale tra gli esercizi di bar e ristorazione e le organizzazioni ricreative svolgenti attività identiche, ma non soggiacenti al medesimo rischio di impresa.
Inoltre, secondo l’Amministrazione finanziaria, ricadeva in capo al circolo l’onere di provare e dimostrare l’inaccessibilità nei locali di avventori esterni e di giustificare la presenza di quest’ultimi, come rilevato dal verbale della Guardia di finanza.
 
La Corte di cassazione, con la sentenza 5154 del 16 marzo 2016, ha confermato quanto già espresso sia ai fini delle imposte dirette (cfr sentenza 15191/2006) che delle indirette (cfr sentenza 26469/2008). In particolare, il Collegio di legittimità ha ribadito che “nel sistema vigente anteriormente alla legge n. 383 del 2000, art. 4 – che ha consentito ai circoli di finanziarsi con attività commerciali consistenti nella cessione di beni e servizi ai soci ed ai terzi – l'attività di bar e ristorante con somministrazione di bevande e alimenti verso pagamento di corrispettivi specifici, svolta da un circolo sportivo, culturale o ricreativo, anche se effettuata ai propri associati, non rientra in alcun modo tra le finalità istituzionali del circolo stesso, e deve, quindi, ritenersi attività di natura commerciale, ai fini del trattamento tributario”.
Pertanto, continua la Corte, non sono commerciali, dunque non imponibili, le attività che rientrano o che sono direttamente riconducibili agli scopi istituzionali dell’associazione ricreativa, anche se poste in essere dietro compenso degli associati o dei partecipanti all’evento (articolo 148, comma 1, del Tuir), e le somme versate a titolo di quote o contributi associativi non concorrono alla formazione del reddito complessivo.
È da ricordare che medesimo trattamento esonerativo fiscale è riservato alle mense aziendali e agli spazi annessi ai circoli e agli enti a carattere nazionale, le cui finalità assistenziali sono riconosciute dal ministero dell'Interno.
 
Mutuando per il caso di specie quanto disciplinato in campo Iva dal Dpr 633/1972, è bene ricordare che hanno carattere di attività commerciali anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rese ai soci, associati o partecipanti verso pagamento “di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto, ad esclusione di quelle effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona, anche se rese nei confronti di associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento o statuto fanno parte di una unica organizzazione locale o nazionale, nonché dei rispettivi soci, associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali”.
Dunque, secondo la giurisprudenza della Corte, non sono imponibili, perché non commerciali, le attività svolte dall’associazione in realizzazione delle finalità istituzionali della stessa, i cui costi non devono, però, eccedere quelli di diretta imputazione, mentre sono imponibili, in via residuale, tutte le altre fattispecie (cfr, Cassazione, pronunce 19843/2005, 3850/2001 e 6340/2002).
 
Per quanto concerne il caso di specie, la Cassazione ha chiarito che i corrispettivi relativi alla somministrazione di alimenti e bevande a terzi all’interno del circolo ricreativo, prima della legge 383/2000, non costituivano finanziamento per i circoli ricreativi ed erano quindi imponibili; successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa, continuare a considerare tale attività non tassabile significherebbe creare una disparità di trattamento con i soggetti economici che svolgono attività ristorativa soggiacendo al rischio di impresa.
 
In presenza, come nel caso di specie, di insegne apposte fuori dei locali dell’associazione per il sol fine di attrarre l’ingresso di un pubblico generico e non avendo il circolo provato che le somministrazioni di alimenti e bevande fossero rivolte esclusivamente ai propri tesserati, il Collegio di legittimità ravvisa, in tal caso, palesemente lo svolgimento di attività commerciale e, quindi, imponibile, all’interno della struttura associativa.
In conclusione, la Corte di cassazione chiarisce che, proprio in virtù del regime fiscale di vantaggio di cui godono le associazioni ricreative, spetta a chi vuol far valere tale trattamento di favore dimostrare di essere in possesso dei requisiti previsti dalla norma agevolativa e fornire prova contraria all’Amministrazione finanziaria rispetto al rinvenimento, da parte della Guardia di finanza, nei propri locali, di persone estranee al circolo e alla presenza dell’insegna sulla via pubblica.
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