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Giurisprudenza

Il “brogliaccio” non dichiarato
comprova il lavoro in nero

L’esistenza di una vera e propria “contabilità parallela” o “doppia contabilità” fa ritenere del tutto inattendibile la documentazione rinvenuta presso la sede del contribuente

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La documentazione extracontabile riguardante prestazioni di lavoro dipendente per le quali i dati con coincidono con quelli dichiarati nei modelli Unico e Studi di settore costituisce una prova dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e non rileva il fatto che l’utilizzo di tale manodopera non abbia avuto riscontro in sede penale, in quanto nel processo tributario la sentenza penale di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste, non è automaticamente efficacie, anche se i fatti accertati in sede penale sono gli stessi per i quali il Fisco ha promosso gli accertamenti nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione dal giudice tributario come possibile fonte di prova.
Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza n. 10138 emessa dalla Corte di cassazione il 28 maggio 2020.

I fatti di causa
Una società di capitali impugnava un avviso di accertamento con il quale l’ufficio aveva proceduto alla rideterminazione del reddito d’impresa originariamente dichiarato, per l’anno d’imposta 2004, in quanto, dall’analisi effettuata era stata rinvenuta documentazione extracontabile avente a oggetto prestazioni di lavoro dipendente i cui dati reddituali non collimavano con quelli dichiarati nei modelli Unico e Studi di settore.
La Ctp di Frosinone accoglieva il ricorso di controparte con sentenza che veniva, poi, confermata dalla Ctr del Lazio la quale rigettava il gravame proposto dall’Agenzia sulla base del fatto che l’appellante, a detta dei giudici di secondo grado, non era stata in grado di avvalorare la correlazione tra maggiori ricavi desunti dagli Studi di settore e incremento reddituale accertato.
Elementi questi che non potevano essere supportati dal ricalcolo induttivo delle percentuali di ricarico né, tantomeno, dalla presunta distribuzione tra sub-appalto e lavoro diretto che veniva considerata insufficiente e sprovvista di confronti oggettivi.
L’Agenzia impugnava detta ultima pronuncia con ricorso per Cassazione affidato a due motivi di doglianza a seguito del quale controparte non opponeva alcuna difesa.

La sentenza della Cassazione
La Corte di cassazione, con la sentenza in argomento, ha accolto, con rinvio, il ricorso proposto dall’ufficio, sulla base delle seguenti motivazioni.
Analizzando congiuntamente le due eccezioni sollevate per ragioni di connessione oggettiva “violazione e falsa applicazione degli artt.39 e 40 del DPR 600/1973 nonché dell’art.2697 c.c. oltreché motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine a fatti decisivi e controversi del giudizio” gli Ermellini li hanno ritenuti fondati e, pertanto, degni di accoglimento.

La Corte, nel solco della consolidata giurisprudenza sul punto (cfr Cassazione nn.12680/2018 e 27622/2018) ha ribadito il principio in base al quale l’indicazione, nella documentazione extracontabile, di lavoro “in nero” costituisca un corretto elemento probatorio provvisto dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’articolo 39 del Dpr 600/1973.
Allargando la visuale, la Cassazione richiama la nozione di “scritture contabili”, così come disciplinate dagli articoli 2709 e seguenti cc, per cui in esse possono essere annoverate tutti quei documenti e/o atti che annotino, in chiave quantitativa, singole operazioni d’impresa ovvero riproducano la condizione patrimoniale dell’imprenditore con il conseguente risultato finanziario; con il corollario di investire il contribuente dell’onere di esibire adeguata prova contraria.
Inoltre, vertendo in tema di accertamento induttivo (articolo 39, comma primo, lettera d) Dpr 600/1973) le determinazioni del giudice in ordine alla sua bontà e legittimità possono basarsi anche solo sulla presenza di una presunzione semplice purché grave e precisa (cfr Cassazione nn. 30803/2017; 4080/2015 e 20902/2014).

Nel caso di specie, l’Agenzia ha fatto buon uso della suddetta metodologia d’indagine in quanto con la scoperta di documentazione extracontabile, nella quale erano annotati una serie di retribuzioni corrisposte “in nero” per prestazioni di lavoro presuntivamente “irregolari”, ha corredato il proprio ragionamento su elementi gravi e precisi circa la presenza di contabilità non conforme; a nulla valendo che la contestazione circa l’utilizzo di detta manodopera non abbia avuto alcun riscontro in sede penale in quanto, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità “…nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula "perché il fatto non sussiste", non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione dal giudice tributario come possibile fonte di prova (cfr ex multis, Cassazione nn. 10758/2015 e 5720/2007).

Nel caso in trattazione, la Corte ha ritenuto che la Ctr del Lazio, nell’esame del merito, avesse tralasciato di valutare appieno gli elementi indiziari esposti dall’ufficio disattendendo i suddetti principi enunciati dalla giurisprudenza stessa della Cassazione.
Inoltre, è stato evidenziato che l’analisi dei giudici di secondo grado si è limitata a ritenere applicabili le sole valutazioni in tema di Studi di settore – controllati sì dall’ufficio ma di certo non esaustivi dell’attività d’indagine da esso espletata – tralasciando il valore probatorio dei cosiddetti  “brogliacci” ed il loro contenuto (ricavi non riversati nelle scritture ufficiali); rendendo, pertanto, affetta da difetto motivazionale la pronuncia impugnata in Cassazione la quale, sul punto, si consumava in una serie di asserzioni del tutto scollegate dalla realtà dei fatti esaminati.          
In conclusione, la complessiva operazione accertativa dell’Agenzia, nel caso in esame, aveva portato a ritenere, con sufficiente ragionevolezza e verosimiglianza, l’esistenza di una vera e propria “contabilità parallela” o “doppia contabilità” tale da considerare del tutto inattendibile la documentazione ivi rinvenuta.

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