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Giurisprudenza

Casa e sede vicine ma separate,
non serve l’ok del procuratore

L’uso promiscuo ricorre quando gli stessi ambienti sono utilizzati come abitazione e come luogo di svolgimento dell’attività o se sono comunicanti, consentendo il facile trasferimento di documenti

condominio

In tema di autorizzazione all’accesso in locali adibiti promiscuamente allo svolgimento dell’attività commerciale e ad abitazione, è necessario che i “locali…siano adibiti anche ad abitazione”, non che lo siano gli immobili nei quali essi si trovano.
È quanto chiarito dalla sentenza del 7 marzo 2019, n. 6625, con cui la Corte di cassazione ha altresì precisato che il concetto di “locale” è meno ampio di quello di “immobile”, potendo i “locali” costituire solo una parte degli immobili in cui si trovano.
 
La vicenda processuale
La società contribuente ha impugnato l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate aveva rettificato la dichiarazione dei redditi presentata per l’anno di imposta 2004, rideterminando l’Ires, l’Irap e l’Iva.
La società ha contestato la legittimità dell’atto impositivo perché fondato su una verifica effettuata presso la sua sede legale situata in un immobile adibito anche a uso abitativo, in difetto dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica, prescritta dagli articoli 33 del Dpr 600/1973 e 52 del Dpr 633/1972.
 
La Ctp ha rigettato il ricorso, con pronuncia confermata dalla Commissione tributaria regionale, secondo la quale, nello specifico “l’immobile…è un edificio di quattro piani, nel quale vi sono abitazioni private e la sede legale della società è ubicata in una zona separata da quella destinata alle abitazioni e che, in base al processo verbale, l'accesso è stato effettuato solo nei locali adibiti alla sede societaria”.
 
La pronuncia di secondo grado è stata impugnata dalla parte soccombente innanzi alla Corte di cassazione.
 
Cenni normativi
Gli aspetti procedurali dell’attività di controllo esterna, ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, sono disciplinati dal combinato disposto degli articoli 33 del Dpr 600/1973 e 52 del Dpr 633/1972, che regolamentano l’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche; mentre l’articolo 12 della legge 212/2000 definisce i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali.
La fase dell’accesso è prodromica allo svolgimento dei controlli dei documenti fiscalmente rilevanti e del controllo di merito. Essa consiste nel potere di entrare in un determinato luogo e di restarvi per effettuare i predetti controlli, anche se chi ne ha la materiale disponibilità non presti il suo consenso o addirittura si opponga all’esecuzione dell’attività in corso.
 
I funzionari addetti all’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche nei locali destinati all’esercizio d’attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al codice del Terzo settore, devono essere muniti di apposita lettera di incarico, che ne indica lo scopo, rilasciata dal direttore dell’ufficio competente al controllo.
In proposito, i commi 1 e 2, dell’articolo 12, legge 212/2000, individuano, quale presupposto generale legittimante il potere di accesso, la sussistenza di effettive esigenze di indagine e controllo sul luogo, con la precisazione che il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che giustificano la verifica e dell’oggetto che la riguarda.
Nel caso si debba effettuare l’accesso in luoghi adibiti ad abitazione dove non si svolga alcuna delle predette attività o in locali adibiti promiscuamente allo svolgimento dell’attività e ad abitazione, qualora sussistano gravi indizi di violazione delle norme finanziarie, oltre alla lettera d’incarico, è necessaria anche l’autorizzazione del procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente in relazione al domicilio fiscale del contribuente.
 
La decisione della Corte
La sentenza in commento anzitutto chiarisce che l’uso promiscuo di locali adibiti anche ad abitazione ricorre non soltanto nell’ipotesi in cui gli stessi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni volta in cui l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento di documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (cfr Cassazione, pronunce nn. 7723/2018, 28068/2013, 2444/2007 e 10664/1998).
Ciò viene in rilievo, quindi, in caso di uso promiscuo dello stesso locale, mentre non rileva la destinazione dell’immobile in cui il locale si trova.
Ciò in quanto, precisa la Corte “Il concetto di «locali destinati all’esercizio» delle attività oggetto di verifica è meno ampio di quello di “immobile” perché individua esclusivamente quelli nei quali l'attività viene esercitata, ben potendo i “locali” costituire parte degli immobili nei quali si trovano (si pensi ai locali destinati alle attività professionali collocati in condomini nei quali, in ipotesi, si trovi anche l'abitazione del contribuente)”.
 
Nel caso di specie, non è contestato che l’intero immobile fosse stato concesso in comodato gratuito
per uso promiscuo abitazione-uffici, ma ciò non è sufficiente a determinare l’illegittimità dell’atto impositivo per difetto dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica, in quanto la ricorrente non ha mai dedotto l’utilizzo promiscuo dei locali ove aveva sede la società accertata, che, come ritiene la Ctr, era fisicamente separata dalle abitazioni.
 
Sulla base delle predette argomentazioni, la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese sostenute nel grado dall’Agenzia delle entrate.

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