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Giurisprudenza

Cassa in rosso, incassi in nero.
I saldi negativi, spia di evasione

Il contribuente deve dimostrare con elementi certi la provenienza delle somme non disponibili, come finanziamenti propri o dei soci, erroneamente non contabilizzati

pagamento in nero
La presenza di un conto cassa negativo fa presumere ricavi occultati al Fisco in misura almeno pari al disavanzo.
Lo ha ribadito la Cassazione, con la sentenza 17004 del 5 ottobre.
 
I fatti
A seguito di verifica della Guardia di finanza nei confronti di una discoteca, l’ufficio aveva accertato maggiori redditi d’impresa in via induttiva per gli anni d’imposta 1996 e 1997 (con conseguente imputazione del reddito di partecipazione all’accomandatario e ai due soci accomandanti), ritenendo inattendibili le scritture contabili per le gravi irregolarità riscontrate (omessa trascrizione nella colonna del registro dei corrispettivi delle somme risultanti dalle distinte d’incasso compilate ai fini Siae).
 
In particolare, il sospetto di evasione d’imposta risultava fondato soprattutto sui perduranti e anomali saldi negativi di cassa (i soci effettuavano continuamente versamenti in contanti per ripianare la costante ed elevata esposizione bancaria, ciò che induceva a ritenere che tali somme costituissero corrispettivi non contabilizzati).
 
Diversamente dal giudice di primo grado, che aveva accolto i ricorsi della società e dei soci, la Commissione tributaria regionale del Piemonte ha riformato le pronunce, rilevando una “vera e propria anarchia contabile e amministrativa”, vista la tenuta dei registri e rilevato che, nei periodi d’imposta esaminati, il conto cassa era risultato negativo ben 284 volte (e cioè quasi tutti i giorni lavorativi dell’azienda).
Il giudice d’appello, inoltre, ha precisato che non poteva essere giustificato il segno negativo del conto cassa per la circostanza che vi confluiva solo denaro liquido.
 
La società e i soci hanno proposto distinti ricorsi in Cassazione, lamentando, tra l’altro, violazione e falsa applicazione degli articoli 54, commi 2 e 3, del Dpr 633/1972, e 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973.
La Corte suprema, dopo averli riuniti sulla base del principio di ricomposizione dell’unicità della causa in presenza dei requisiti d’identità sostanziale e simultaneità processuale (Cassazione, sentenza 3830/2010), li ha rigettati dando continuità al principio secondo il quale “in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg e Iva, ai sensi dell’art. 39 del d.p.r. 600 del 1973 e dell’art. 54 del d.p.r. 633 del 1972, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l'esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo (… nn. 11998 del 2011, 27585 del 2008, 24509 del 2009)”.
 
Osservazioni
La Corte di cassazione rileva che la chiusura “in rosso” di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio e senza necessità che venga riscontrata la sussistenza di ulteriori prove certe e dirette, che le voci di spesa sono di entità superiore a quelle degli introiti registrati. Di conseguenza, oltre a rappresentare sotto il profilo formale un’anomalia contabile, tale chiusura negativa denota, senza alcuna forzatura logica, l’omessa contabilizzazione di altre attività non registrate (in misura almeno equivalente al disavanzo), salva prova contraria.
 
La sentenza, quindi, ha un duplice piano di lettura.
Da un punto di vista logico-fattuale, poiché il conto cassa è un prospetto contabile del libro mastro sul quale sono annotate le entrate e le uscite di cassa (cioè in denaro contante), il suo saldo negativo è sempre espressione di una rilevazione non corretta. Per sua natura, infatti, tale conto non può essere rappresentato contabilmente con un valore inferiore a zero: ciò significherebbe che si stanno sostenendo dei costi senza averne la relativa possibilità materiale e, quindi, devono presumersi oggettivamente sospette le risorse utilizzate per far fronte ai pagamenti in quanto corrispondenti a ricavi occultati e non transitati dalla contabilità ufficiale.
Attraverso tale presunzione, infatti, verrebbe meno la contraddizione di aver speso soldi che non si erano incassati.
 
Sul piano giuridico-formale, tale presunzione legittima il recupero dei ricavi in nero da parte dell’ufficio sia mediante metodo “analitico – induttivo” (ex articolo 39, comma 1, del Dpr 600/1973, senza disattendere l’impianto contabile, l’ufficio determina i componenti del reddito con metodo analitico sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti), sia con metodo “induttivo – extracontabile” (ex articolo 39, comma 2, dopo aver dimostrato l’inattendibilità delle scritture contabili, l’Amministrazione procede sulla scorta di presunzioni non qualificate).
 
Se da una parte, infatti, il conto cassa rientra tra le scritture contabili che, nonostante non obbligatorie, sono astrattamente idonee a essere utilizzate dall’ufficio ai fini dell’accertamento (articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973), quale documento relativo all’impresa (Cassazione, sentenza 6166/2001), dall’altra, qualora la contabilità sociale debba considerarsi palesemente inattendibile in quanto incompleta e anche confliggente con i criteri di ragionevolezza, è consentito al Fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e, quindi, desumere, sulla base di presunzioni semplici (articolo 39, comma 2, Dpr 600/1973), maggiori ricavi con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (Cassazione, 8333/2012).
Con ripercussioni, quindi, anche sul piano della prova.
 
La Corte, infatti, ha chiarito che “sulla base del riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni dell’art. 54, co. 2, DPR 633/72, e dell’art. 39, co. 2, DPR 600/73, l’Ufficio non è tenuto a fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati”.
Nella fattispecie sottoposta all’esame dei giudici di legittimità, la società e i soci avrebbero dovuto offrire prove contrarie e dimostrare ulteriori componenti positivi del reddito (per esempio, a titolo di prestiti e/o conferimenti, corrispondenti al suddetto saldo di cassa e di provenienza diversa rispetto ai ricavi contabilizzati), ovvero errori di scritturazione e/o problemi d’impostazione contabile. In altri termini, avrebbero dovuto provare da quali operazioni avevano attinto la liquidità risultante dai pagamenti effettuati nonostante il saldo di cassa negativo (Cassazione, sentenza 3580/2009).
In assenza di tali prove, la Corte ha correttamente ritenuto fatto certo l’esistenza di entrate in nero, rimanendo altrimenti inspiegabile la possibilità di spesa.
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