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Giurisprudenza

La Cassazione chiede lumi sull’abuso di diritto

Corte di giustizia chiamata a pronunciarsi (ordinanza n. 21371/2006) sulla portata esatta del principio fissato, in ambito Iva, con la sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02

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Con l’ordinanza 4 ottobre 2006, n. 21371, la sezione tributaria della Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi su una controversia Iva concernente una complessa operazione di leasing finanziario, ha chiesto alla Corte di giustizia delle Comunità europee di esprimersi in via pregiudiziale sull’interpretazione da attribuire alla nozione di “abuso del diritto”, come definito per la prima volta in ambito Iva dalla sentenza 21 febbraio 2006, emessa dai giudici comunitari in relazione alla causa C-255/02.

Descrizione dell’operazione
La controversia sottoposta al vaglio della Corte consisteva in un’operazione di locazione finanziaria di autoveicoli. In particolare, a seguito di un’indagine fiscale svolta dalla Guardia di finanza, era emerso che attraverso una serie di operazioni svolte tra due soggetti appartenenti a un medesimo gruppo societario (la I Srl e la IF Sas), veniva sottratta materia imponibile ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. In altri termini, l’operazione di leasing finanziario (assoggettata a imposta sul valore aggiunto) veniva tramutata, per una parte, in un contratto di assicurazione del bene contro rischi diversi dalla responsabilità civile, e nella prestazione di una garanzia (con cauzione pari al costo del bene non coperto dei canoni e con fideiussione illimitata) per l’adempimento degli obblighi assunti dall’utilizzatore verso la società concedente.

Questi due contratti venivano stipulati tra l’utilizzatore del bene e la società I Srl, con emissione di fattura in esenzione d’imposta (ai sensi dell’articolo 10 del Dpr 26 ottobre 1972, n. 633) a fronte dei relativi corrispettivi (dovuti dall’utilizzatore all’I Srl). Il contratto di leasing finanziario soggetto all’imposta sul valore aggiunto stipulato tra l’utilizzatore e la società di leasing (IF Sas), prevedeva dei canoni di leasing artificiosamente ribassati (in quanto depurati dai costi dei servizi e del finanziamento prestato dalla I Srl) che coprivano esclusivamente il costo del bene concesso.
Infine, la I Srl corrispondeva alla IF Sas, a titolo di intermediazione, un compenso dovuto per effetto di una convenzione stipulata tra le stesse società.

Secondo l’organo verbalizzante, quindi, anche se le pattuizioni sopra descritte erano contenute in distinti contratti tra i tre soggetti dell’operazione (una convenzione generale tra la I Srl e la IF Sas, una convenzione assicurativa e prestazione di garanzia tra l’utilizzatore e la I Srl, un contratto di locazione finanziaria tra l’utilizzatore e la IF Sas) portavano comunque a un negozio unitario (di locazione finanziaria) tra le tre parti, nel quale il corrispettivo globale (ripartito tra le due società) doveva essere interamente assoggettato a imposta sul valore aggiunto.

Sulla scorta di tale ricostruzione, veniva emesso a carico della società I Srl un avviso di rettifica con il quale veniva recuperata l’imposta relativa alle prestazioni svolte (fatturate in esenzione d’imposta), in quanto ritenute imponibili ai fini Iva.

Le questioni interpretative sollevate nell’ordinanza
La Cassazione, osservando preliminarmente che all’epoca dei fatti in contestazione (1987) non vi era alcuna specifica disposizione di diritto interno che consentisse all’Amministrazione finanziaria di contrastare l’elusione fiscale, ha esaminato la possibilità di applicare al caso di specie la generale clausola “antiabuso” che la giurisprudenza della Corte di giustizia ha rinvenuto nell’ordinamento comunitario e, più in particolare, per quanto concerne l’imposta sul valore aggiunto, nella VI direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/Cee.

I giudici di legittimità, inoltre, prima di verificare la possibile applicazione all’ordinamento nazionale della predetta clausola antiabuso, ha evidenziato che tale esame può essere effettuato d’ufficio, pur non avendo formato la questione oggetto di specifici motivi di ricorso. Difatti, sempre secondo gli stessi giudici, l’applicazione di un principio generale del diritto comunitario (quale quello dell’abuso del diritto) non può essere impedita da preclusioni di carattere processuale previste dal diritto interno.

In tal modo, la Corte ha ritenuto “che il carattere chiuso del giudizio di cassazione non impedisce che venga applicato il diritto comunitario nella sua interezza, indipendentemente da specifiche domande proposte nel giudizio di merito o introdotte coi motivi di ricorso, col solo limite dell’avvenuta definizione del rapporto controverso” (cfr, sentenza 10 dicembre 2002, n. 17564; sentenza 28 marzo 2003, n. 4703).

Per quanto riguarda poi il merito della questione, si rileva che il principio dell’abuso del diritto in ambito comunitario (e in particolare nel settore Iva) è emerso in maniera dirompente con la sentenza emessa dai giudici comunitari con riferimento alla causa C-255/02.
In quella occasione i giudici comunitari hanno affermato in linea di principio che “L’applicazione della normativa comunitaria non può…estendersi fino a farvi rientrare i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario”.

Tuttavia, per la Corte di giustizia, perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle disposizioni della sesta direttiva e dalla legislazione nazionale che la traspone, portare a ottenere un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni (punto 74 della sentenza). Inoltre, deve altresì risultare, da un insieme di elementi oggettivi, che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale (cfr. punto 75 della sentenza).
Infine, spetterebbe al giudice del rinvio verificare, conformemente alle norme nazionali sull’onere della prova, ma senza che venga compromessa l’efficacia del diritto comunitario, se gli elementi costitutivi di un comportamento abusivo sussistano nel procedimento principale (punto 76 della sentenza).

Tali argomentazioni, però, non sono bastate alla Cassazione per decidere la controversia oggetto della pronuncia che si commenta.
I giudici di legittimità, nella ricostruzione della nozione di abuso del diritto, evidenziano che perché si configuri tale fattispecie è necessario, oltre alla persecuzione di una finalità contrastante con lo spirito della direttiva, che la forma giuridica utilizzata abbia “essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale” (punti 75 e 86 della sentenza C-255/02).
Ed è proprio il requisito del vantaggio fiscale a porre alcuni dubbi alla Suprema corte.

In altre parole, mentre la giurisprudenza comunitaria alcune volte ha utilizzato l’espressione “operazioni compiute al solo scopo di realizzare un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico”, in altre situazioni (come quelle appena descritte nella sentenza C-255/02) ha utilizzato il termine “essenzialmente”.
Il problema che quindi si pongono i Supremi giudici nazionali (e per il quale formulano apposito quesito alla Corte di giustizia) è se l’espressione “essenzialmente” sia equivalente, più ampia o restrittiva di “compiuta al solo scopo di realizzare un vantaggio fiscale”.

Di conseguenza, viene chiesto ai giudici comunitari di pronunciarsi sulla applicabilità della clausola “antiabuso” anche alla complessa operazione di leasing prima descritta.

Pronunce della Corte di cassazione sulla clausola antiabuso
Alcune brevi considerazioni possono essere svolte sull’ordinanza di rimessione in commento, alla luce di alcuni precedenti orientamenti della stessa Cassazione.
In particolare, si osserva che, prima della pronuncia n. 21371 del 2006 in commento, la Corte si era già espressa sulla possibile applicazione del principio di derivazione comunitaria dell’abuso del diritto, pervenendo alla conclusione che il principio in argomento andasse applicato alle operazioni poste in essere al solo scopo di trarre un vantaggio fiscale.
In quella occasione, i giudici di legittimità non avevano sentito l’esigenza di formulare appositi quesiti alla Corte di giustizia in merito alla portata applicativa del principio dell’abuso del diritto, ritenendo direttamente applicabile nell’ordinamento interno i principi emersi dalla sentenza comunitaria resa con riferimento alla causa C-255/02.

Più precisamente, con la sentenza 5 maggio 2006, n. 10353, la Cassazione, chiamata a pronunciarsi su una controversia Iva, statuiva che “pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”.
In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che alla tradizionale bipartizione dei comportamenti dei contribuenti, in tema di Iva, in fisiologici e patologici (propri delle frodi fiscali), si aggiunge una sorta di tertium genus, in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, volto a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale e autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche, che risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva.


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