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Giurisprudenza

La causa di “forza maggiore”
va rigorosamente provata

In assenza di una puntuale dimostrazione, l’esimente non può valere per il solo fatto del mancato tempestivo pagamento delle imposte a fronte di una temporanea mancanza di adeguata liquidità

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Non è configurabile l’ipotesi della "forza maggiore" quale causa di inadempimento dell'obbligazione tributaria, qualora, agli atti, nulla risulti allegato o dimostrato in proposito dalla parte che intende avvalersi di tale esimente.
È quanto ha affermato, accogliendo le tesi dell'Ammirazione finanziaria, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio con la sentenza n. 2060 dell’11 aprile 2023.

Nel caso in esame, infatti, la società contribuente, che aveva omesso il pagamento delle imposte a causa di un asserito mancato pagamento da parte di alcuni clienti primari, non aveva prodotto in giudizio alcuna prova per evidenziare i tentativi posti in essere per fronteggiare per tempo le difficoltà economiche dei propri committenti, limitandosi a sostenere di aver privilegiato il pagamento degli stipendi dei dipendenti, assicurando così la continuità aziendale, rispetto ad adempiere ai propri obblighi tributari.

La vicenda
L’Agenzia emetteva un avviso bonario, con il quale intimava alla società contribuente il pagamento di un importo a titolo di Iva non versata, maggiorato di interessi e sanzioni.
La società, pur non contestando il debito tributario, eccepiva la non debenza di quanto richiesto a titolo di sanzioni e interessi, asserendo che il mancato pagamento di quanto dovuto fosse da ricondurre a causa di forza maggiore (articolo 6 del Dlgs n. 472/1997), imputabile ai persistenti ritardi nei pagamenti da parte dei due principali clienti della stessa società.
Ai sensi della disposizione ora richiamata, infatti, e in particolare del comma 5 dell’articolo 6, dettato in materia di sanzioni amministrative per violazione di norma tributarie, non è punibile chi ha commesso il fatto per cause di forza maggiore.

Investiti della questione, i giudici tributari di primo grado respingevano il ricorso della contribuente avverso l’avviso bonario emesso dall’Agenzia, affermando che era del tutto carente la prova della causa di forza maggiore asserita dalla società, in quanto non era presente agli atti alcuna documentazione dalla quale si potesse evincere come il mancato pagamento delle imposte fosse dovuto al mancato pagamento delle fatture emesse nei confronti delle società principali clienti della contribuente e, soprattutto, non era stata data la prova di come non fosse stato possibile reperire altrove le risorse economiche e finanziarie necessarie per consentire il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie.

Avverso tale determinazione, la contribuente proponeva appello alla commissione tributaria di secondo grado del Lazio, ribadendo come il mancato pagamento di quanto dovuto a titolo di Iva fosse da imputare ai mancati incassi delle fatture emesse nei confronti dei due maggiori clienti della società stessa, che versavano una in concordato preventivo, l’altra in amministrazione straordinaria. A fronte di tale situazione, la società contribuente affermava di aver preferito privilegiare il pagamento degli stipendi dei dipendenti agli adempimenti tributari, assicurando così la continuità aziendale.
Per tale asserita causa di forza maggiore, la contribuente chiedeva dunque la riforma della sentenza di primo grado, con l’annullamento di quanto richiesto a titolo di sanzioni e interessi da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Quest’ultima, costituendosi in giudizio, ribadiva innanzitutto come dovesse ritenersi insussistente la causa di forza maggiore, evidenziando che, secondo l'orientamento della Corte di cassazione, la contribuente avrebbe dovuto dare piena prova dell'assoluta impossibilità di procurarsi sufficienti disponibilità finanziarie per assolvere alle proprie obbligazioni tributarie, magari facendo ricorso al mercato del credito o, comunque, dimostrando di aver vanamente perseguito ogni strada utile a garantire il soddisfacimento dell'obbligazione tributaria.
L’Agenzia osservava, poi, come gli interessi da ritardata iscrizione a ruolo (ex articolo 20, Dpr n. 602/1973) siano comunque da considerarsi insuscettibili di annullamento, pur in ipotesi di forza maggiore, in quanto nessuna norma ne prevede l’annullamento, a differenza invece di quanto avviene con le sanzioni, in relazione alle quali trova applicazione il citato comma 5 dell’articolo 6, del Dlgs n. 472/1997, e come, stante il carattere necessariamente accessorio degli interessi dovuti, sarebbe illogico ritenere non dovuti gli stessi quando il debito d'imposta a titolo di Iva non è contestato.

La decisione dei giudici di appello
Chiamati a pronunciarsi definitivamente sulla questione, i giudici tributari di secondo grado hanno respinto l’appello della contribuente, confermando la correttezza dell’operato dell’Amministrazione finanziaria.
La nozione di forza maggiore, infatti, hanno ricordato i giudici laziali – richiamando sul punto anche le recenti pronunce della suprema Corte di cassazione nn. 1578/2021 e 24308, 21681 e 20389 del 2020 – comporta la sussistenza di un elemento oggettivo, relativo alle circostanze anormali ed estranee al soggetto tenuto all’adempimento tributario, e di un elemento soggettivo, costituito dall'obbligo dell'interessato di premunirsi contro le conseguenze dell'evento anormale, adottando tutte le varie misure appropriate. In tale contesto, sempre secondo giurisprudenza di Cassazione, è stato ripetutamente escluso che una situazione di illiquidità o di crisi aziendale nella quale versi l'impresa possa integrare una fattispecie di forza maggiore.

Secondo la Corte di giustizia tributaria di secondo grado le doglianze della società contribuente si risolvono nella pretesa di far derivare lo stato di incolpevole insolvenza semplicemente dai ritardi nel pagamento dei propri debiti da parte dei suoi due clienti principali, senza fornire alcuna prova su come non sia stato altrimenti possibile, per la stessa contribuente, reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentire il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il proprio patrimonio, dirette a consentire di far fronte ai propri obblighi tributari.

La causa di forza maggiore, hanno poi proseguito i giudici tributari romani, non può farsi derivare dalla sorte dei propri principali clienti ma, piuttosto, dal dimostrato esito vano delle iniziative che la società appellante avrebbe potuto e dovuto adottare tempestivamente al fine di reperire le risorse necessarie a fronteggiare i rischi di crisi di liquidità, pagando puntualmente quanto richiestole a titolo di imposte.

Dunque, anche come ricordato dalla decisione della Cassazione n. 22153/2017, in assenza di una puntuale prova in tal senso, l’esimente della forza maggiore non può essere ritenuta operante per il solo fatto del mancato tempestivo pagamento delle imposte a fronte di una temporanea mancanza di adeguata liquidità, essendo stata destinata quella disponibile alla continuità aziendale piuttosto che al soddisfacimento degli obblighi tributari.

Infine, i giudici tributari hanno convenuto con l’Agenzia, che l’invocata esimente della causa di forza maggiore non trova comunque applicazione per gli interessi da ritardata iscrizione a ruolo che, in quanto accessori, seguono la sorte dell'obbligazione principale, la quale, nel caso in esame, non è stata oggetto di contestazione alcuna.

Per le motivazioni ora viste, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio ha rigettato l’appello proposto dalla società contribuente, confermando la decisione impugnata favorevole all’Amministrazione finanziaria.

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